作者:nino biondo 6 年以前
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Bibliografia di carattere monografico sul cinema di Flaherty
Henri Agel, Robert J. Flaherty, Seghers, Paris 1965.
Arthur Calder-Marshall, The Innocent Eye: The Life of Robert J. Flaherty, Harcourt, New York 1963.
Quintar Fuad, Robert Flaherty et le documentaire poétique,«Etudes cinématographiques» n. 5, vol. 1, 1960.
Frances Hubbard Flaherty, The Odyssey of a Film-Maker: RobertFlaherty’s Story, Arno, New York 1970.
Paolo Gobetti, Robert Flaherty, Quaderni cinematografici, Torino 1960.
Mario Gromo, Robert Flaherty, Guanda, Parma 1952.
Richard Griffith, The World of Robert Flaherty, Gollancz,London 1953.
Klaue Wolfgang, Jay Leyda (a cura di), Robert Flaherty,Henschelverlag, Berlin 1964.
Marcel Martin, Flaherty, L’Avant-scène, Paris 1966.
William T. Murphy, Robert Flaherty: a Guide to References andResources, Hall, Boston 1978.
Antonio Napolitano, Robert Flaherty, La Nuova Italia, Firenze 1975.
Paul Rotha, Robert J. Flaherty: A Biography, JayRuby (a cura di), University of Pennsylvania, Philadelphia 1983.
Jay Ruby, The Aggie Will Come First: The Demystification of Robert Flaherty, Jo-Anne Birnie Danzker (a cura di), ArtGallery,Vancouer 1980.
Richard Barsam, The Vision of Robert Flaherty: The Artist as Myth and Filmmaker, Indiana University, Bloomington 1988.
Flaherty è l’iniziatore di uno sguardo cinematografico su culture lontane, anche se Nanook è il primo film commissionato a scopo pubblicitario (da una casa di pellicce). A Flaherty è attribuita la realizzazione del primo film di valore “documentario” (Moana, 1926). Ma in realtà l’instancabile ricerca di immagini, che opera attraverso la sua cinecamera, “fa vedere” il mondo da lontano: è la tesi dell’alta vocazione umana della tele-visione. Il suo linguaggio è il messaggio che comunica cose “mai viste prima”.
L’importanza del contributo cinematografico di Flaherty si sta ancora vagliando.
Da molti è visto come profetico precursore: i suoi film non sono mai stati successi da botteghino, ma il loro messaggio, ancora oggi, ha qualcosa di importante da mostrare sull’essere umano in questa età di complessità.
Robert Flaherty fu il profeta di cose da venire –di McLuhan che venne - e delle discipline di uno stile di comunicazione globale, non-verbale e non-lineare.
Flaherty va in spedizione tra gli eschimesi e narra la vita primitiva dell’uomo in sintonia con la natura in Nanook, e poi, quando conclude la carriera in Louisiana Story, racconta l’uomo moderno che deve fare i conti con la tecnologia, rompendo quel patto con la natura. Flaherty mostra disappunto per i mezzi tecnologici; tuttavia vive in continuo contatto con una cinepresa che considera l’estensione dei suoi occhi e che gli consente di “fotografare” lo spazio e il tempo della sua visione.
Louisiana Story was Flaherty’s last film. It was commissioned by the Standard Oil Company, which is ironic. The oil workers are all friendly with the young protagonist, and the way Flaherty and Leacock shoot the oil rig is just as beautiful in its own way as the way they shoot the boy’s languorous days in the swamp. But with the constant contrasting between nature and the disruption of nature that the oil well represents,Louisiana Story doesn’t ever feel like a promotion for the petroleum industry.
Nelle paludi della Louisiana i cingolati e le sonde di una società petrolifera interrompono l'esistenza idilliaca di un ragazzo, di suo padre, degli uccelli e degli alligatori.Finanziato dalla Standard Oil che lasciò carta bianca ai realizzatori, è un semidocumentario che richiese più di un anno dilavoro tra riprese e montaggio per cavare 2000 m dai 100000 girati col giovane Philip Leacock alla macchina da presa …
Storia di una famiglia di pescatori che vive su una delle isole di Aran in Irlanda. In una terra inospitale e dura viene descritta la vita di persone forti ed indipendenti abituate a lottare contro gli elementi della natura ed a rispettarla. La famiglia, composta da padre, madre e figlio, riproduce fatti, parole e gesti tradizionali e antichi, ripresi dal regista con un piglio da antropologo, sempre pronto a sciogliersi in una struttura drammatica, nella quale i personaggi acquistano la dimensione eroica, pur restando esseri umili.
"È una storia limpida, grande e potente quanto Robinson Crusoe" - dichiarava entusiasta il poeta e critico cinematografico Carl Sandburg ai lettori del "Chicago daily news" il 9 settembre 1922 - ed è misteriosa, minacciosa e avvincente quanto The Treasure Island". Paragonando Nanook of the North a due dei più popolari romanzi di avventure del mondo, Sandburg cercava di includere una nuova esperienza cinematografica nell'ambito delle effettive conoscenze dei suoi lettori. E riconosceva pure, anche se involontariamente, una delle caratteristiche del film di Robert J. Flaherty che ha costantemente dato vita alla discussione sui mezzi, i fini e lo scopo morale del genere cinematografico che Nanook of the North sembra aver fondato: il documentario. Lo scopo dichiarato di Flaherty nel puntare la cinepresa sul grande cacciatore Nanook, la sua famiglia e la sua tribù, era quello di cogliere lo spirito di un popolo osservandolo nella sua vita quotidiana. Ma si trattava comunque di una vita quotidiana adattata alle aspettative di un'opera di fiction, come indica il sottotitolo originale del film: "A story of life and love in the actual Arctic". Dunque un film costruito intorno alla figura di un eroico protagonista (che come al solito ci viene presentato in un sorridente primo piano). La vita quotidiana assume la forma narrativa del racconto e vi sono momenti in cui, chiaramente, le esigenze pratiche prevalgono sull'autenticità. Per riprendere gli interni nel ristretto spazio dell'igloo, la cinepresa di Flaherty doveva operare dall'esterno attraverso un'ampia fessura praticata sulle pareti della costruzione, per cui il respiro dei personaggi risulta visibile. La foca faticosamente trascinata sul ghiaccio è palesemente già morta. Altre scene appaiono costruite principalmente a vantaggio della cinepresa, come quella in cui Nanook scopre il grammofono alla stazione commerciale dei bianchi e, cercando di capire da dove provenga la musica, morde il disco in gommalacca. Ma, a dire il vero, Flaherty non sostenne mai di essere un etnografo; per lui l'autenticità dei mezzi contava assai meno di quella degli effetti. Nel suo articolo di memorie Robert Flaherty Talking, egli scrive: "Il mio desiderio di realizzare Nanook of the North derivava da ciò che provavo nei confronti di questo popolo, dall'ammirazione che avevo per loro; volevo raccontare agli altri quel che sapevo di loro".Flaherty era soprattutto un narratore: in questo consiste l'essenza della sua arte. Ma era pure un esploratore; Nanook of the North vide la luce dalle ceneri di materiali filmati nel corso di spedizioni di ricerca nel Canada settentrionale che Flaherty aveva intrapreso negli anni Dieci per conto dell'industriale Sir William Mackenzie. Grazie al sostegno della Revillon Frères, una ditta di commercianti di pellicce, Flaherty ritornò poi negli stessi territori nel 1920 allo scopo di documentare la vita del popolo Inuit con un film incentrato sulla figura di Nanook, un celebre cacciatore del luogo. Oltre alle cineprese, egli aveva con sé tutta l'attrezzatura necessaria per sviluppare, stampare e proiettare il film. Le riprese durarono un intero anno, mentre il montaggio avvenne nell'inverno tra il 1921 e il 1922. Come contrappunto alla cruda bellezza delle immagini furono aggiunte poetiche didascalie ("The wail of the wind… the brass ball of sun a mockery in the sky"). Infine, distribuito dalla Pathé, il film venne presentato in America nel giugno 1922, ottenendo un notevole successo che si ripeté nel resto del mondo.Poco dopo l'uscita del film, Flaherty venne a sapere che Nanook era morto di denutrizione durante una spedizione di caccia al cervo. Ma il film che ne celebrava la vita continuò il suo percorso, raggiungendo un pubblico "più numeroso dei ciottoli che formano la spiaggia su cui viveva Nanook", come disse lo stesso Flaherty in occasione di una nuova uscita del film. Nel 1947 Herbert Edwards ne montò una versione abbreviata con musica e commento aggiunti. Nel frattempo il cinema documentario aveva elaborato stili e scopi sociali che si discostavano notevolmente dall'acritica narrazione romantica privilegiata da Flaherty. Eppure, nonostante tutti i suoi compromessi, Nanook of the North è incentrato su uno dei punti di forza del cinema documentario: l'uso della macchina da presa come strumento di scoperta. Nella sequenza più nota del film, quella della costruzione dell'igloo, assistiamo affascinati a questo processo e, quando Nanook inizia a intagliare un blocco di ghiaccio, il suo scopo (quello di ricavare una finestra) non è immediatamente chiaro. Insieme alla macchina da presa scopriamo la sua ingenuità, così come ammiriamo la sua forza quando egli lotta con trichechi e foche. Le discussioni sullo stile, lo scopo e l'autenticità di questo film continueranno; ma, in qualità di documento umano, Nanook of the North possiede tempra e bellezza più che sufficienti per sopravvivere.
Interpreti: Nanook, Nyla, Alleegoo, Cunayou, Rainbow, Comock.
Durante l'estate Nanook e la sua famiglia, appartenenti alla tribù Itivimuit, raggiungono in kayak la stazione commerciale dei bianchi a Hopewell Sound, nella regione artica di Northern Ungava, dove egli vende pelli di volpe e di orso polare e si diverte con il grammofono dell'uomo bianco. La famiglia di Nanook rimane bloccata sulla costa a causa dei ghiacci alla deriva, ma, grazie alla sua abilità, egli riesce comunque a sfamarla pescando un salmone. Nanook si unisce poi ad altri cacciatori che si dirigono in kayak verso un'isola lontana a caccia di trichechi. Dopo una terribile lotta, Nanook viene aiutato dagli altri a trascinare a riva il tricheco che ha arpionato; una parte della carne dell'animale viene immediatamente consumata dai cacciatori prima del loro ritorno all'accampamento. Arriva l'inverno, con le sue bufere di neve. Nanook va a caccia di foche su un terreno difficile, ma riesce a catturare soltanto una volpe artica. Si decide quindi a trasferire l'accampamento in un altro luogo; mentre i suoi figli giocano, nel giro di un'ora Nanook costruisce un igloo con tanto di finestra per far passare la luce. Poi insegna al minore dei suoi figli come scoccare una freccia dall'arco per colpire un orso di neve. Al mattino la famiglia si prepara a partire nuovamente a caccia di foche. Dopo aver trovato nel ghiaccio un foro praticato da una foca per respirare, Nanook vi introduce l'arpione; gli altri lo aiutano a recuperare la foca catturata, che viene subito scuoiata e consumata. È quasi buio; la famiglia è lontana dall'accampamento e il viaggio di ritorno viene ulteriormente ostacolato da una zuffa scoppiata tra i cani della muta; la famiglia è quindi costretta a rifugiarsi in un igloo abbandonato. La muta di cani trascorre la notte all'aperto, in balia della violenta bufera di neve; dentro l'igloo, Nanook e la sua famiglia dormono insieme protetti dalle pelli degli animali.
Flaherty ha recitato in:
The Last Voyage of Captain Grant (1938 (TV)
Film prodotti:
Nanook of the North (1922)
The Twenty-Four-Dollar Island (1927)
Tabu: A Story of the South Seas
(1931) di Flaherty e F. W. Murnau
Louisiana Story (1948)
The Titan: Story of Michelangelo (1950)
Film montati:
Nanook of the North (1922)
Moana (1926)
Passione secondo San Matteo di Ernst Marischka (1949)
Film di cui ha curato la fotografia:
Nanook of the North (1922)
L'ultimo Eden (Moana) (1926)
Tabu: A Story of the South Seas di Robert Flaherty e Friedrich Wilhelm Murnau (1931)
Man of Aran (1934)
The Land (1942)
Prelude to War (1943) (non accreditato)
Film sceneggiati:
Nanook of the North (1922)
Moana (1926)
Tabu: A Story of the South Seas (1931) di Robert Flaherty e Friedrich Wilhelm Murnau
Man of Aran (1934)
The Last Voyage of Captain Grant (1938 (TV)
The Land (1942)
Louisiana Story (1948), candidato all'Oscar del 1949 per il miglior soggetto, co-sceneggiatrice Frances Flaherty
Film-making di Flaherty:
Nanuk l'eschimese (Nanook of the North) (1922)
The Potterymaker (1925)
L'ultimo Eden (Moana) (1926)
The Twenty-Four-Dollar Island (1927)
Ombre bianche (White Shadows in the South Seas) (1928), co-regia con W. S. Van Dyke
Tabù (Tabu: A Story of the South Seas) (1931), co-regia con Friedrich Wilhelm Murnau
The Glassmakers of England (1933)The English Potter (1933)
Gran Bretagna industriale (Industrial Britain) (1933)
Art of the English Crasftsman (1933)
L'uomo di Aran (Man of Aran) (1934)
La danza degli elefanti (Elephant Boy) (1937), co-regia con Zoltan Korda
La terra (The Land) (1942)
Un racconto della Louisiana (Louisiana Story) (1948)
Il titano, storia di Michelangelo (The Titan: Story of Michelangelo) (1950)
E’ vero che il mondo è ciò che vediamo, ma è altresì vero che dobbiamo imparare a vederlo.
(Maurice Merleau-Ponty)
Regista statunitense, nato a Iron Mountain (Michigan) il 16 febbraio 1884 e morto a Brattleboro (Vermont) il 23 luglio 1951. Il suo lavoro influì in modo determinante sullo sviluppo del cinema in quanto nuovo mezzo espressivo grazie a un approccio aldocumentario che ruppe con tutte le convenzioni stabilite dai processi produttivi dell'epoca. Il suo primo film, Nanook of the North (1922; Nanouk o Nanuk l'eschimese), ricostruzione romanzata della vita di un nativo nelle terre dei ghiacci, restituì sullo schermo quella realtà mostrata nei primi cinématographes dei fratelli Lumière e in seguito bandita dagli schermi, a favore di immagini convenzionali, simili a cartoline illustrate. Affrontò gli aspetti essenziali ed elementari della vita umana, con una tale intensità e purezza di stile che la critica definì i suoi lavori documentari lirici. Il tema unico della sua opera fu proprio quello dell'uomo di fronte alla natura, che egli seppe descrivere con intensa sensibilità e che lo interessò proprio in quanto vista attraverso lo sguardo umano. Lo slancio romantico del suo temperamento, che rispecchiava un carattere inquieto, non escludeva una profonda fiducia nell'ostinata capacità di resistenza dell'essere umano contro gli elementi scatenati della natura. Scelse di ambientare i suoi film tra popoli che vivevano in condizioni particolarmente difficili e con Man of Aran (L'uomo di Aran) ottenne la Coppa Mussolini come miglior film straniero alla Mostra del cinema di Venezia del 1934.Figlio primogenito di un ricercatore minerario di origine olandese, F. frequentò la scuola mineraria del Michigan e per diversi anni esplorò le regioni selvagge del Canada: le spedizioni si rivelarono il più delle volte infruttuose dal punto di vista commerciale, ma durante questi viaggi, a partire dal 1913, cominciò a realizzare i suoi primi film amatoriali. Girò migliaia di metri di pellicola tra la Terra di Baffin e le Isole Belcher, ma il negativo, per un banale incidente, fu divorato dalle fiamme. La copia positiva suscitò però grande interesse, soprattutto tra i membri dell'American Geografic Society e dell'Explorer Club. Cercò quindi di elaborare un proprio stile e un modo nuovo di porsi dietro la macchina da presa e, diversi anni più tardi, grazie all'interessamento della Revillon Frères, una ditta di pellicciai francesi che desiderava realizzare un film pubblicitario nelle regioni artiche, tornò a girare nella Baia di Hudson. Vi rimase per quasi due anni, lavorando giorno per giorno alle riprese e alla costruzione del film, senza basarsi su una sceneggiatura precisa, ma attingendo materiale dalla vita di Nanook e della sua famiglia. Ne nacque un quadro elegiaco della vita degli eschimesi e il film, che venne distribuito anche commercialmente, ottenne un inaspettato successo. Nanook piacque soprattutto negli ambienti intellettuali che si erano tenuti fino a quel momento lontani dal cinema, ritenendo il nuovo mezzo più una forma di intrattenimento che un fatto culturale. A fronte di questo consenso l'industria hollywoodiana credette di poter scritturare F. anche al di fuori dei canoni consueti delle sue collaborazioni e la Paramount lo invitò a realizzare un altro film 'esotico', ambientato questa volta nelle isole della Polinesia. La lavorazione di Moana (1926; L'ultimo Eden) durò a lungo: trasferitosi a Samoa con la famiglia, F. ebbe difficoltà a costruire una drammaturgia incentrata sulle abitudini dei polinesiani, in quanto le condizioni di vita particolarmente favorevoli dei mari del Sud predisponevano alla contemplazione della bellezza più che mostrare la lotta con la natura. F. ebbe l'intuizione di utilizzare per alcune scene la pellicola pancromatica al fine di esaltare, attraverso il colore e la brillantezza dei paesaggi e dei corpi, l'incanto della vita tra gli indigeni del Pacifico, ma il film, forse proprio per la mancanza di un tema drammatico centrale, non incontrò il favore del pubblico. Successivamente F. fu incaricato da Irving Thalberg della Metro Goldwyn Mayer di realizzare un altro soggetto ambientato nel Pacifico, White shadows in the South seas (1928; Ombre bianche), e questa volta gli fu affiancato W.S. Van Dyke, un regista che conosceva bene le esigenze della produzione. Nacque così un conflitto insanabile, che comportò l'abbandono del set da parte di F., nonché il ritiro della sua firma dal film. Tuttavia egli tornò nuovamente tra quegli indigeni, questa volta in coppia con il regista tedesco Friedrich Wilhelm Murnau che era emigrato negli Stati Uniti. Per poter lavorare liberi dai condizionamenti dell'industria hollywoodiana i due registi fondarono una propria società di produzione; il soggetto di partenza, Turia, prevedeva uno scontro tra la società tradizionale e la civiltà bianca e alcuni elementi avventurosi, ma fu messo da parte a favore di una storia che contenesse un elemento drammatico classico: la tradizione polinesiana del tabù. Anche la realizzazione di Tabu (1931; Tabù), ambientato a Bora Bora e realizzato senza sonoro, presentò non pochi problemi a causa delle profonde divergenze di opinione tra i due registi, entrambi dotati di personalità forti e difficilmente conciliabili. L'abbandono del set da parte di F. farebbe pensare che il suo contributo a Tabu si sia limitato alla sola sceneggiatura, ma come ha rilevato gran parte della critica la prima parte del film riflette il suo mondo poetico, più solare e fiducioso rispetto a quello del regista tedesco. Invitato dal gruppo di documentaristi che faceva capo a John Grierson e che tanto doveva al suo lavoro, F. si recò in Inghilterra e con lo stesso Grierson lavorò alla realizzazione di Industrial Britain (1931-32). I documentaristi inglesi erano più vicini alla realtà sociale di quanto non fosse F. e non mancarono le polemiche con quanti, come Paul Rotha, vedevano nella poetica del regista statunitense il pericolo di un allontanamento dalle problematiche della realtà. L'universalità della poetica di F. tornò a esprimersi pienamente nel successivo Man of Aran, girato in Irlanda in una delle inospitali isole Aran, presso una famiglia di pescatori. La lotta dell'uomo contro le avversità della natura era parte della quotidianità degli abitanti delle isole Aran: alla paura del mare, fonte principale di sostentamento ed elemento della natura soggetto per le variazioni climatiche a forti tempeste, si aggiungeva la scarsità della terra coltivabile, creata con pazienza e caparbietà dalla popolazione stessa. Per la realizzazione di questo film F. godette del pieno appoggio del produttore inglese Michael Balcon, ma le difficoltà ad accettare i compromessi con l'apparato produttivo costituirono un elemento ricorrente nella sua carriera: la regia del successivo Elephant boy (1937; La danza degli elefanti), girato in India per la London Film di Alexander Korda, fu da questi affidata al fratello Zoltan dopo circa un anno di lavorazione, poiché F. non tenne affatto conto delle indicazioni del progetto originario. Rientrato negli Stati Uniti realizzò The land (1942), un documentario commissionatogli dal Department of Agriculture: impietoso ritratto delle misere condizioni di vita dei coloni americani, fu ritirato dalla circolazione perché ritenuto troppo pessimistico. Affrontò nuovamente il tema della vita rurale nel Sud degli Stati Uniti, questa volta prestando particolare attenzione all'incalzante processo di industrializzazione, nel successivo Louisiana story (1948), commissionato dalla compagnia petrolifera Standard Oil e in parte finanziato dallo stesso regista. Il tema del conflitto tra civiltà moderna e mondo tradizionale era nuovo per F.: qui l'auspicata sintesi tra la vita contemplativa del mondo primitivo e le componenti drammatiche insite nella vita moderna trova la sua espressione simbolica e lirica nel personaggio del ragazzo che attraversa le paludi tropicali per incontrare gli uomini del petrolio e in un uso suggestivo della colonna sonora, composta da Virgil Thompson, che aggiunge alle immagini della natura un sottofondo di mistero. Nel 1950 realizzò il suo ultimo lavoro The Titan: story of Michelangelo, un documentario d'arte per il quale utilizzò il materiale girato da Curt Oertel nel 1937, ampliandolo e rimontandolo.
FLAHERTY, Robert Joseph
di Francesca Vatteroni
in Enciclopedia del Cinema (2003)
Robert Joseph Flaherty è il realizzatore del primo documentario riconosciuto come tale e l’iniziatore di una tipologia di cinema che in tanti amano definire “non-fiction”.
Spesso i filosofi hanno dovuto scontrarsi con la difficoltà di rendere le loro speculazioni con un linguaggio adatto e comprensibile. Il cinema «usando una ragione logopatica [sia logica che affettiva a un tempo] e non solo logica», (poiché l'emotività non scaccia la razionalità ma la ridefinisce) offrirebbe un linguaggio per immagini più comprensibile e accessibile dando senso cognitivo a ciò che i filosofi tentano di esprimere a parole. Per farsi domande sulla natura di un film bisogna guardarlo come «concetto visuale in movimento» che il filosofo Julio Cabrera chiama "concetti-immagine", i quali producono un fatto emotivo da cui si origina un sapere a cui non occorre il linguaggio ma che sia solo semplicemente rappresentato visivamente.
Essi hanno la capacità di offrire alla spettatore ««la pienezza di un’esperienza viva, dal momento che include in essa la temporalità e il movimento», generando un impatto emotivo come risultato di meccanismi tecnici come il montaggio che permette il "multiprospettivismo", e la manipolazione della cronologia o la gestione di diversi punti di vista cioè «la capacità che ha il cinema di saltare continuamente dalla prima persona (ciò che sente o vede il personaggio) alla terza (ciò che vede la cinepresa».
J.Cabrera, Da Aristotele a Spielberg. Capire la filosofia attraverso i film, Pearson, 2007
La sua arte si identifica nel lavoro poetico del regista che vede e organizza le immagini: Flaherty riprende e monta da sé i suoi film. Il suo cinema è opera di un innovatore: va citato l’uso della panoramica, della pellicola pancromatica, delle lenti lunghe per i primi piani, delle lampade Mazda, della camera a spalla, il lavoro svolto con una piccola troupe (come si usa oggi per la televisione) e soprattutto l’impiego di persone reali che recitano “dal vero”.
Insieme a Méliès, Griffith, Sennett, Eisenstein, Flaherty è considerato tra i grandi innovatori nella storia del cinema; la sua opera di regista è apprezzata principalmente dai cineasti americani, britannici e francesi.
Robert J. Flaherty, da giovane, compie dei viaggi nel profondo Nord americano come esploratore di minerali di ferro.
In uno di questi viaggi, il suo principale gli dice: “Perché non porti con te quella cosa di nuovo conio chiamata cine-camera-da-presa?”
E' così che comincia la sua carriera di cineasta; la sua dichiarazione “prima fui esploratore, poi artista” rappresenta un’espressione letterale della sua vita, ma anche la metaforica spiegazione del suo modo di lavorare.