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af Miriana Amata 8 år siden

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Il 700

Gli studenti della classe 4°D del liceo scientifico "Concetto Marchesi" hanno intrapreso un progetto educativo nel mese di gennaio, guidati dal docente di storia e filosofia Alessandro Salerno.

Il 700

A cura di: Miriana Amata, Francesca Barbagallo, Fabrizio Campo, Nicoletta Denaro, Gaia Giarrizzo, Fabiola Schilirò, Sergio Signorello, Andrea Tiezzi e Valentina Zimone

Sottoargomento

Il 1700 Sulle orme di Giacomo Casanova alla scoperta del '700

Descrizione del progetto


Nel mese di gennaio i ragazzi della classe 4°D del liceo scientifico“Concetto Marchesi”, si sono impegnati con l’aiuto del docente di storia e filosofia Alessandro Salerno, ad introdurre la lezione inerente al 1700 con la lettura settimanale del libro “La mia fuga dai piombi” di Giacomo Casanova.

Il professore ha estratto

dal

testo venticinque titoli, che descrivono il ‘700 in tutte le sue forme, ed ha assegnato ai ragazzi un titolo da elaborare singolarmente o in coppia con una ricerca approfondita.

In seguito ha dato il compito, ad un gruppo di nove ragazzi seguiti

dalla tirocinante Roberta Bisicchia, di raggruppare le ricerche in una grande mappa concettuale, che riorganizzi il ‘700  nel suo complesso ed in forma organica adattandolo perfettamente alle frasi del capolavoro di Giacomo Casanova.


SISTEMI DI MISURAZIONE

"Quando la campana suonò la terza [...]"
Come si contava il tempo nel 1700

CONTARE LE ORE NEL '700



In passato l’ora non era intesa come un’unità di misura costante. Esistevano e venivano usati quattro schemi di riferimento: le “ore babiloniche” che iniziavano dal sorgere del sole, le “ore italiche” che partivano dal tramonto, le “ore astronomiche” o comuni che si contavano dal mezzogiorno e dalla mezzanotte e in fine le “ore antiche”, la cui durata era diversa a seconda che fosse giorno o notte.

Oggi è universalmente in vigore il terzo schema, quello che nei secoli passati si usava in molte parti d’Europa ma non in Italia, dove invece era diffuso il cosiddetto orario italiano, nel cui sistema tutto dipendeva dal momento in cui tramontava il sole, che segnava l’ultima ora che era volgarmente chiamata “le ventiquattro”. Quella successiva prendeva il nome di “ora di notte” o semplicemente “l’un ora” e diveniva quindi la prima ora della nuova giornata, che aveva termine alle “ventiquattro”. “Le ventiquattro” non erano stabili e fisse per tutti i mesi dell’anno, si spostavano al variare delle stagioni: dal periodo più lungo durante i giorni prossimi al solstizio d’estate, a quello più breve al principio dell’inverno.

In questo secolo per regolare in maniera più precisa il tempo, vennero introdotti gli orologi meccanici, cioè macchine regolate da pesi, dall’acqua o dai cosiddetti rotismi. Simili orologi vennero montati su torri civiche, cattedrali, chiese, monasteri e sulle abbazie più importanti. Divennero così orologi pubblici che regolavano la vita di tutta la comunità. Grazie al loro moto uniforme, questi orologi meccanici tendevano a individuare ore sempre uguali da sessanta minuti l’una. Come detto il nuovo giorno iniziava al tramontare del sole, le ore si cominciavano a contare a partire da quel momento fino al tramonto successivo. Nonostante ciò si veniva a creare una certa confusione, specialmente nei rapporti con le altre nazioni dove vigeva un diverso sistema. La Francia ad esempio aveva adottato l’uso di dividere le ore della giornata in due periodi: dalla mezzanotte al mezzogiorno e viceversa, distinguendo le ore in antimeridiane e pomeridiane: ciò veniva chiamato “contare le ore alla francese”.



Andrea Pezzano

"Aveva lo spessore di un pollice e la distanza tra i due bracci era di cinque pollici [...]"
I sistemi di misurazione in Italia prima della nascita del sistema metrico decimale


ANTICHE UNITA' DI MISURA ITALIANE


Il mondo era ritagliato a misura d’uomo […] Potrei perfino dire che misurava il mondo col proprio corpo: il palmo, il pollice, la lunghezza del braccio, il cubito, l’apertura delle braccia, il passo, il piede, il pugno, la tesa, il lancio di una pietra, i battiti del cuore, il calore del corpo, il suo peso, la portata dello sguardo o della voce: tali erano le sue misure e i suoi pesi.

PandelisPrevelakis

La prima unità di misura adottata fu tarata in riferimento al corpo umano: il cubito, infatti, corrispondeva alla lunghezza dell’avambraccio dalla punta del gomito a quella del dito medio a mano aperta. Raddoppiando questa misura si ottiene il braccio e successivamente la tesa, che si estende dall’estremità di una delle dita medie fino al dito corrispondente nell’altra mano. Le misure più piccole erano la spanna, che corrisponde alla metà di un cubito, il palmo, equivalente alla larghezza del palmo escluso il pollice e infine, il dito, pari alla larghezza di un dito.

Per la misurazione di tutti gli oggetti che si possono sollevare e maneggiare, la tesa, il braccio, il cubito, la larghezza della mano, la spanna e le dita sono gli strumenti proposti dalla natura; mentre passo e piede sono utilizzati per la misurazione delle distanze. Storicamente è importante sapere che il piede si è imposto, rispetto al cubito, come una unità di misura comune. il vantaggio di essere una parte frazionata comune sia al passo che alla tesa, e fornisce così naturalmente il modo per ridurre i due campioni di misura a uno solo.

In Veneto per misurare capacità e volumi di merce secca, si usava il moggio (333,3 litri), mentre i liquidi avevano come unità di misura il mastello (75,12 litri).

La canna era l’antica unità di lunghezza; era composta da 8 palmi avente valore di 2,109360 metri. Questa canna era utilizzata nel commercio dei tessuti e nelle misurazioni inerenti a costruzione di fabbricati.

Prima della designazione del metro (sistema metrico decimale), l'unità di misura di riferimento era il piede reale di Parigi, con il quale venivano poi confrontate tutte le altre misure. Esistevano vari tipi di piede, con lunghezze diverse, poiché ogni nazione o città sanciva la sua misura. Infatti il diritto di fissare le misure era di competenza specifica di chi deteneva il potere, a cui conseguiva il diritto di punire le alterazioni.

In conclusione, il diritto di produrre le proprie unità di misura diveniva simbolo di potere, di libertà ed autonomia da altri sovrani. Tanto è vero che, in epoca feudale, quando coesistevano sovranità diverse (come la comunità, il signore, la Chiesa e il re o imperatore) coesistevano anche misure diverse, ognuna valida nel proprio ambito. Dunque, ogni città usava misure diverse, con inevitabili complicazioni nelle comunicazioni e nelle operazioni commerciali.

Di solito, il piede reale veniva suddiviso in 12 parti, dette dita o pollici (in francese pouces), ognuna delle quali si suddivideva in altre 12 parti, dette linee e ciascuna di queste linee, a sua volta, veniva suddivisa in 10 particelle, percui l’intero piede risultava così composto da 144 linee o 1440 particelle. Sottomultipli di questa unità, detta anche piede di Vespasiano, erano le once o dito grosso, di cui ne occorrevano 12 per formare un piede.










Veneto

Lungh. Piede o palmo = 12 once (5 piedi = passo)

Braccio da lana

Braccio da seta

Miglio = 1000 passi met.

»

»

Cm 0,347398

0,6833

0,6387

1,73867

Super. Migliaio = 1000 passi quadrati

Passo quadrato = 25 piedi quadri ari 30,2299

Capac. Moggio = 4 staia = 16 quarti = 64 quartaroli

Anfora = 4 bigonce = 8 mastelli = 192 bozze lit.

» 333,268

600,934

Peso Libbra grossa = 12 once di 192 carati

Libbra sottile Cg

» 0,476998

0,3012

Monete Lira austriaca = 20 soldi di 5 centesimi lire it.. 0,8506



Monica Magrì

La nascita del sistema metrico decimale

IL SISTEMA METRICO DECIMALE


Sin dall'antichità, l'uomo ha avuto uno strettissimo legame con la matematica, legame che darà vita alle più importanti scoperte del mondo.


Le civiltà preistoriche si trovavano coinvolte, a loro insaputa, in calcoli giornalieri estremamente semplici come la conta delle pecore o delle loro prede e gettavano così le prime basi della matematica.

Con il passare dei secoli, la matematica ha iniziato a svilupparsi nelle varie popolazioni e ad essere applicata per risolvere i problemi di tutti i giorni quali il commercio, la costruzione di edifici e di vie di comunicazione; il problema dell'unità di misura diveniva così sempre più ricorrente e per questo motivo ogni civiltà iniziò a creare un sistema proprio.

Le prime unità di misura rudimentali, che si basavano su parti del corpo, risalgono agli antichi egizi che usavano per le lunghezze il cubito, cioè la lunghezza di quella parte di braccio compresa tra il gomito e il dito medio, ai greci che usavano il “piede” e ai romani che si servivano del “passo”.

L'invenzione di nuove unità di misura in un primo momento sembrò favorevole per le città, ma con l'andar del tempo iniziò a complicarne i rapporti, soprattutto quelli di tipo commerciale: numerosi erano i cambi di misura che subivano le merci nel loro viaggio e abbondanti le tassazioni che ricevevano.

Si iniziava così a cercare un solo sistema da sostituire alla molteplicità dei sistemi presenti, in modo da far sì che una determinata quantità fosse in ogni comune misurata da una stessa unità metrica ed espressa da uno stesso linguaggio.

La prima a cercare una vera e propria soluzione fu la Francia, nel 1775: costituì una commissione di scienziati, presieduta da Luigi Lagrange (noto matematico), che ebbe il compito di creare un insieme di unità di misura per ciascuna grandezza (lunghezza, peso, volume, ecc..) che potesse essere adottato in modo univoco dai vari paesi.

Il sistema a cui pensò la Francia è uno dei risultati della rivoluzione del 1789. In ogni modo, l’idea di avere una misura universale, come già esposto precedentemente, si deve attribuire alle più antiche popolazioni, ma la sua concreta attuazione si deve conferire all’ opera della possente Accademia di Francia ed all’ impegno dei suoi astronomi. La questione della grandezza della Terra aveva sempre suscitato enorme interesse fra gli astronomi d’ogni tempo e di ogni Scuola tanto da intraprendere la misurazione di lunghi archi di meridiano terrestre, allo scopo di dedurne una misura universale. Fu attraverso il decreto, proposto dal Talleyrand, del 8 maggio 1790, che si propose la radicale riforma per fissare l’unità naturale delle misure e dei pesi. Il gigantesco progetto fu portato a termine dai commissari nominati dall ’Accademia delle Scienze e cioè Borda, La Grange, La Place, Monge e Condorcet, i quali fondarono il modello invariabile di tutte le misure.

La creazione del “metro” è stata fatta da Delambre e Mechain, due importanti astronomi francesci a cui fu affidata la parte più importante dell'impresa, la misurazione del meridiano tra Dunkerque e Barcellona: la sua lunghezza ha portato alla definizione del metro come: “la frazione 1/10^7 dell'arco di meridiano terrestre dal polo all'equatore”. Soppressa l’Accademia delle scienze nell' agosto 1793, fu creata una Commissione temporanea per intensificare i lavori per la creazione del nuovo sistema di misure e pesi, ma la natura delle operazioni intraprese richiedeva del tempo perché il tutto fosse portato a compimento. Il 7 aprile 1795 la Convenzione aveva proclamato il Sistema Metrico Decimale e aveva già adottato una nuova nomenclatura, più sistematica, di tutte le parti del Sistema Metrico Decimale, quella stessa nomenclatura che regge ai giorni nostri, ma ancora non aveva determinato il metro definitivo. Le operazioni furono portate a compimento con esattezza e precisione nel novembre del 1798. Per rendere utili a tutti i vantaggi di quel lavoro, l’Istituto Nazionale della Francia invitò tutti i dotti di Europa per esaminarne le parti e quindi verificare i calcoli e i metodi.

Esaminate tutte le operazioni astronomiche sulla misura dell’arco terrestre, le ricerche sulla lunghezza del pendolo, e le esperienze sulla scoperta del peso dell’acqua distillata. Dopo lunghi mesi di esame, di discussione e di confronto, di calcoli, l’Istituto Nazionale di Francia poté finalmente il 22 giugno 1799 presentare al Corpo Legislativo i campioni prototipi del Metro e del Chilogrammo definitivamente determinati.

Nello stesso anno, il campione naturale del metro (1/10^7 dell'arco di meridiano terrestre dal polo all'equatore) viene sostituito da un campione artificiale costituito da una barra in platino (metro legale di Fortin). Il campione verrà sostituito nel 1889 e verrà creato l'unità del chilogrammo, anch'essa in platino.



Ecco il sistema metrico-decimale conosciuto ai giorni nostri:




Il nuovo sistema, ormai ultimato nel 1799, prese il nome di “Sistema metrico decimale” e fu adottato un po’ da tutte le principali nazioni del mondo: la Francia fu ovviamente la prima; seguirono altri paesi tra cui l'Italia che lo adottò nel 1861. Esattamente con la legge del 28 luglio, proposta dal Ministro di Agricoltura Industria e Commercio Cavaliere Filippo Cordova ed approvata dal primo Parlamento d’Italia, sanzionata e promulgata dal Re Vittorio Emanuele II, si diffonderà il SISTEMA METRICO DECIMALE e si proclamerà valido in tutte le attuali province italiane.

Importante figura nella storia delle misure siciliane è Angelo Agnello, che preparò un prospetto per ogni sistema di misurazione locale e per tutte le categorie delle misure dei Comuni di Sicilia nel “Codice metrico siculo”, facilitando così il lavoro del Parlamento che aveva il compito di preparare la riduzione delle misure antiche in quelle moderne, in modo da non far rimanere questa riforma semplicemente un concetto astratto. Il primo obiettivo, ovviamente, era dimostrare i vantaggi del nuovo sistema, ma principalmente preparare i mezzi affinché dall’ astrazione dell’idea si passasse alla realtà. La Commissione incaricata aveva un compito difficile e arduo da svolgere perché aveva di fronte un popolo che aveva in uso ben 145 misure lineari, 59 misure agrarie, 212 misure di capacità e 31 pesi. In virtù della legge italiana del 28 luglio 1861 il Sistema Metrico Decimale fu proclamato dovere essere in vigore nelle province non più tardi del 1 gennaio 1863.

Pertanto, il primo passo per la sua attuazione fu la reciproca riduzione delle nuove ed antiche misure, dei nuovi ed antichi pesi, da basarsi sull’ esatto rapporto delle unità fondamentali dell’uno e l’altro sistema.





Ultima evoluzione del “Sistema metrico-decimale” la troveremo nel 1889,quando in Francia sarà stabilito il “Il sistema internazionale di unità di misura” (in francese Système international d'unités), abbreviato in SI (Unità, terminologia e raccomandazioni del SI sono fissate dalla "Conferenza generale dei pesi e delle misure", organismo collegato con l'Ufficio internazionale dei pesi e delle misure").

Quindi oggi il SI è basato su sette grandezze fisiche fondamentali e sulle corrispondenti unità di misura con le quali vengono definite le grandezze fisiche derivate e le corrispondenti unità di misura. Inoltre il SI definisce i prefissi da aggiungere alle unità di misura per identificare multipli e sottomultipli.

Il sistema internazionale è un "sistema coerente" in quanto le sue grandezze fisiche derivate si ricavano come prodotto e rapporto di grandezze fisiche fondamentali.




Fabrizio Campo e Sergio Signorello

ALIMENTAZIONE E SALUTE

"Gli risposi che volevo una minestra di riso, del lesso, dell' arrosto, frutta, pane, vino e acqua [...]"
Le abitudini alimentari

LE ABITUDINI ALIMENTARI NELLA CLASSE ARISTOCRATICA E NELLA CLASSE POPOLARE

Nel 1700, in gran parte dell’Europa, si assiste ad un cambiamento radicale della coltivazione e del consumo degli alimenti. Dopo la scoperta dell’America e le esplorazioni in Africa e in Oriente, vengono introdotte e coltivate piante ancora sconosciute. Possiamo definire il ‘700 come un periodo di cambiamenti e rivoluzioni. Naturalmente l’alimentazione varia in base al ceto sociale. Vi fu un passaggio dalla cucina medievale alla cucina moderna. Nella vecchia Europa per secoli gli alimenti erano rimasti qualitativamente uguali. In particolare la scoperta delle Americhe introdusse alimenti nuovi che però non furono utilizzati contemporaneamente dovunque.

I cibi importati dalle Americhe come: patate, mais, tabacco, pomodoro e cioccolata prendono posto sia sulle tavole dei ricchi che sulle tavole dei poveri. Caffè, cioccolato, tabacco e thè daranno impulso ad un nuovo modo di stare insieme: nascono sale da degustazione e club in cui i cittadini si incontrano per scambiare le loro idee; tutto questo viene accompagnato dall’introduzione del Galateo, che nasce proprio in questo periodo. Già alla fine del XVI secolo, la diffusione della patata cominciò ad avanzare partendo dall’Irlanda. Verso la fine del ‘700, quando il prezzo del frumento iniziò ad aumentare notevolmente a causa dei cattivi raccolti, la patata si diffuse in tutta l’Europa. La polenta divenne la base dell’alimentazione dei contadini dell’Italia del Nord. Si inizia ad usare il vino per la cottura delle carni. Nasce il ragù e la gelatina. Mentre nelle tavole dei poveri si introduce il cavolo.

A quel tempo le portate come le bevande dovevano essere servite seguendo un ordine ben preciso, in modo tale che il palato riuscisse a gustare tutti i sapori. Nell’alta cucina troviamo carni ricoperte da brodi e consommé, mentre nella cucina dei poveri le portate sono sempre meno sia di numero che di quantità. In Francia nacque il formaggio Camembert, il paté de foie gras, le meringhe e il Cognac; si elaborano i sughi di base, il biondo di vitello per le salse brune e le bronoise di carote, sedano, cipolle e altre verdure; si perfezionano i rosolati e le glasse. Ma non tutti potevano permetterselo, infatti molti usano le salsicce, la trippa e i piedini di vitello.

Il pasto tipico di Luigi XIV era composto da 3 piatti di zuppa, un fagiano, una tortora, due costolette d’agnello, un piatto di prosciutto, dolci e frutta. Usanza del nobile, era di battere tre volte le mani a fine pasto dicendo “buon appetito”, ed era il segnale per i servi di poter mangiare gli avanzi. Questa è una delle regole riportate nel Galateo, per questo non è buona educazione dire buon appetito. La classe popolare invece si nutriva di cibi essenziali, il loro pasto consisteva in un pezzo di pane, cipolle e zuppa di fagioli. Da bere vi era solamente l’acqua.

Le origini della Pizza Napoletana STG (Specialità tradizionale Garantita) risalgono all'inizio del XVIII secolo, collocabili fra il 1715 e il 1725. Sembra che perfino il re di Napoli, Ferdinando di Borbone, avesse scelto di frequentare queste botteghe, violando così le regole dell'etichetta, pur di sperimentare la tanto popolare ricetta. La Pizza Napoletana STG è un prodotto da forno farcito. La pasta è formata da farina di grano tenero 00 - a cui è possibile aggiungere il tipo 0 - lievito di birra, acqua naturale e sale; gli ingredienti base per la farcitura sono i pomodori pelati e/o pomodorini freschi, l'olio extravergine di oliva e il sale. La farcitura è completata con Mozzarella STG o Mozzarella di Bufala Campana DOP e basilico (Margherita) oppure con origano e aglio (Marinara). Pizza Napoletana STG, caratterizzata dal centro più sottile e dal bordo più spesso, detto cornicione.

Diverse sono le bevande consumate in varie parti dell’Europa: nell’Europa meridionale si beveva vino; birra al Nord; sidro in Bretagna e in alcune parti dell’Inghilterra. In particolare uno tra i vini più antichi proveniva dall’isola di Cipro è il Commandaria. Fu il primo vino ad avere una “Denominazione d’Origine”. La leggenda vuole che il Commandaria sia stato prodotto inizialmente per Riccardo Cuor di Leone ed i suoi Crociati. Si suppone che questo vino sia stato servito anche al suo matrimonio con la regina Berengaria. E’ un ottimo vino da dessert, già celebre nel XII secolo ed è fatto con uve bianche e rosse dei villaggi di Kalokhorio, Zoopiyi, Yerasa e di altri pochi villaggi vicini. Le uve per produrre questo vino provengono da una vendemmia tardiva e subiscono un successivo appassimento al caldo sole di Cipro; questo ulteriore appassimento permette alle uve di accrescere ulteriormente il loro contenuto zuccherino. Solo a questo punto vengono pigiate. Il mosto viene raccolto e lasciato fermentare nei tini o in enormi giare di terracotta come vuole la più antica tradizione. Il suo sapore ricorda un po’ uno sherry dolce, ed è stato prodotto per secoli seguendo sempre lo stesso rigoroso metodo. L’intensa dolcezza di questo vino, ben quattro volte più del porto, secondo l’antica usanza ve diluito con acqua, anche di mare. I vitigni tipici dell’isola: Mavro, Xinisteri, L’Ophtalmo ed il Muscat. Altro vino famoso all’epoca era il vino prodotto nelle Canarie; El Grifo è la più antica azienda ancora in produzione di tutte le Isole Canarie e dell’intera Spagna. Fondata nel 1775, è ancor oggi un business di famiglia. I locali della vecchia struttura offrono un salto nel passato, con la splendida biblioteca che ospita alcune migliaia di libri antichi. Protagonisti, i vitigni autoctoni: Malvasía vulcanica e Moscatel fra i bianchi, Listán negro fra i rossi. Fra le Malvasie brilla quella secca, nelle due versioni (in acciaio o barricato). Tutto questo portò ad un grande cambiamento che creò le basi dell’alimentazione moderna e fece mutare soprattutto gli aspetti economici e produttivi dell’agricoltura dell’epoca.

Costanza Dimitri

"[...] ma solo la cella antistante dove passeggiavano topi grossi come conigli."
L'igiene

IGIENE NEL'700

L’acqua, elemento essenziale per la vita, simbolo di purezza, diviene strumento per l’igiene solo a partire da pochi secoli fa. I Romani, grandi amanti dell’igiene, si scandalizzavano talmente dal cattivo odore delle razze che soggiogavano, che costruirono ovunque terme e acquedotti.

                 

Nel XVI secolo, quando la peste dilagava, fare il bagno significava debilitarsi ed esporsi al rischio del contagio. Non si dovevano lavare nemmeno i bambini. La pulizia si limitava soltanto al cambio dei vestiti perché secondo le credenze di allora, una camicia pulita equivaleva a un bagno.

Nel ‘700 si sosteneva che fare il bagno potesse causare sterilità e aborti. Addirittura l’acqua era considerata nemica della capacità riproduttiva dell’uomo e si credeva che ostruisse i pori, non permettendo la traspirazione e rendendo il sangue denso, provocando di conseguenza l'amenorrea nelle donne, cioè la mancanza di mestruazioni. Per questo motivo per molto tempo a quest’ultime era stato consigliato di lavarsi il meno possibile.

A questo c’è da accostare poi il fatto che l’igiene femminile era un parametro per dare giudizi sulla moralità delle donne: se sporche erano considerate oneste, se pulite certamente prostitute. Queste teorie non risparmiavano neppure i nobili e gli aristocratici: per le donne oneste, infatti, non c'era alcun bisogno di lavarsi, anzi, riservare cura al proprio corpo era considerato peccaminoso.

Per sopperire alla puzza tuttavia i ceti più alti scelgono alluvioni di profumi e frequenti cambi d’abito. Anche alcune regine si vantavano di fare il bagno ogni tre mesi, ma solo se ne avevano bisogno. Nei ceti più poveri invece, il graduale aumento demografico rende insufficiente il rifornimento idrico e i fiumi cominciano già a essere inquinati. Iniziano le epidemie e l'acqua è accusata di ogni nefandezza; fare il bagno debilita la persona e la pulizia del corpo è affidata alla "pulizia secca", che consisteva nel frizionare energicamente il corpo e il volto con panni profumati.

Alla corte di Versailles, pur essendo un luogo frequentato dalla nobiltà, l’igiene personale era praticamente sconosciuta. La regina Maria Antonietta era l’unica a pulirsi, sana abitudine derivatale dall’infanzia viennese che volle mantenere anche a Parigi. La sovrana si fece quindi costruire una bella sala da bagno impreziosita da specchi dipinti, dotata di una vasca nella quale si immergeva tutti i giorni dopo aver fatto profumare l’acqua con essenze naturali. Ma fare il bagno nuda era impensabile, troppo scandaloso, ed era meglio non fornire ulteriori motivi di pettegolezzo alle solite malelingue di palazzo. Per evitare imbarazzi, Maria Antonietta indossava una “camicia da bagno“, ovvero una tunica in flanella lunga fino ai piedi, da tenere addosso per tutto il tempo che restava immersa.


Ma sebbene l'igiene personale non veniva curata, le donne e gli uomini del '700 tenevano molto ad apparire in perfetta forma, al punto di trascorrere gran parte della giornata davanti allo specchio. Il sorriso era un'arma di seduzione anche allora: uno dei rimedi più utilizzati dalle cortigiane consisteva nella bruciatura di grossi gambi di rosmarino privati prima delle foglie; la cenere derivata da questa operazione doveva poi essere mescolata con le foglie stesse così da assorbirne il profumo. L'impasto di rosmarino veniva poi messo su un fazzoletto e sfregato sui denti.

I profumi servivano a coprire i cattivi odori: l'aroma delle rose era consigliato per coprire il fetore delle ascelle e tra camicie e panciotto si usava portare sacchetti di aromi. I capelli, si sgrassavano con polvere e crusca e poi si cospargevano di cipria profumata. Si riteneva inoltre che gli abiti servivano ad assorbire il sudiciume, ed era costume cambiarsi spesso; ciò era considerato un atto di igiene.

La Chiesa dimostrava un rapporto ambivalente con la pulizia corporale. Da un lato l’igiene del corpo rispecchiava quella dell’anima, dall’altro la pratica del bagno era vista come ricerca di voluttà. Venerata, era per esempio sant’Agnese che nel corso della sua breve vita non si lavò mai.

Il 700 però fu anche un secolo di rivoluzioni, infatti, venne inventato il bidet che, nonostante ciò, veniva comunque definito peccaminoso in quanto usato dalle prostitute per lavarsi dopo i rapporti. Tuttavia l’amore per i cosiddetti "effluvi" naturali permane. Le donne con abbondante sudorazione esercitavano un gran fascino su Casanova, così come, prima di lui, su Enrico IV di Francia.

I viaggiatori dall’oriente riportano la moda del bagno turco e la "rivincita dell'acqua” inizia a partire dall' 1800. Londra è la prima città in Europa a coprire i canali di scolo, a portare l'acqua ai piani alti e a dotarsi di un sistema fognario.

Le successive scoperte di Koch e Pasteur sulla microbiologia porteranno le persone a interrogarsi su come si sia potuto credere alla pericolosità dell'acqua.


Giulio Finocchiaro

"Dopo avermi preparato un'abbondante limonata [...] rividi il medico con il guardiano e un chirurgo che mi fece un salasso [...]"
La medicina

LA MEDICINA NEL'700

           

Nel 700 viene scritto il primo vero trattato di anatomia patologica: il “De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis” di Giovanni Battista Morgagni. I grandi anatomisti sono numerosissimi, tra cui Eduard Jenner, medico inglese che introdusse la vaccinazione antivaiolosa dando vita alla medicina preventiva.

Il vaccino essendo realizzato attraverso la concentrazione di virus se pur in forma attenuata, avrebbe potuto far contrarre al soggetto la malattia che avrebbe dovuto prevenire.

Al fine di evitare la proliferazione delle malattie, si cercava di intervenire attraverso il farmaco associandolo all’insieme dei sintomi manifestati dal soggetto con le corrispettive alterazioni anatomiche. In Francia si fece strada l'idea che, come nella conoscenza i concetti dovevano essere ricondotti alle sensazioni, così nella medicina i sintomi avevano la loro origine negli organi.

“De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis” può suddividersi in due parti, quella anatomica e quella anatomo-patologica. L'opera, formata da 750 pagine, composta in settanta epistole medico anatomiche, è ordinata in cinque libri, ciascuno dei quali è dedicato ad una delle principali Accademie europee. Ogni epistola prende in considerazione una malattia e ne presenta i casi completi di una dettagliata “relazione autoptica” ed “epicrisi” finale, in tutto sono presenti circa 700 casi. Il “De Sedibus” è una delle opere più celebri ed importanti della storia della medicina perché permise alla patologia di poter finalmente diventare una scienza sperimentale. Il titolo stesso riassume l’essenza del metodo anatomo-clinico: “morbus” è il quadro clinico presentato dal paziente; “causis per anatomen indagatis” è l’alterazione organica dimostrata dall’esame autoptico. Le ricerche anatomiche di Morgagni sono contenute nelle “Adversaria anatomica” e nelle “Epistolae anatomicae”, opere che gli diedero fama mondiale. La rivoluzione effettuata da Morgagni consiste nella ricerca delle alterazioni, nello studio delle sedi e delle cause dei mali, quali solo l’anatomia sa rintracciare e dimostrare. Morgagni per realizzare la sua più grande opera il “De Sedibus” si avvalse sia dell’esperienza personale, sia di osservazioni di predecessori e contemporanei. I suoi scritti sono il frutto di continui esami comparativi, nei quali cerca un parallelismo fra lesione anatomica e sintomo clinico. L’opera ebbe un’accoglienza trionfale, tanto che dal 1761 al 1765 ne furono stampate ben quattro edizioni e in seguito fu tradotta in lingua inglese, in lingua francese e in lingua italiana.

Tra il 600 e il 700 venivano utilizzati dei metodi purgativi e depurativi per ristabilire il corretto rapporto tra le sostanze costitutive del corpo umano: il clistere, il vomito, le sanguisughe. Con quest’ ultime si prelevavano considerevoli quantità di sangue da un paziente al fine di ridurre l'apporto di sangue nelle arterie. Per praticare il salasso venivano usate delle lancette caricate a molla, alla pressione di un bottone o di una leva scattavano una o più lame che incidevano la cute più o meno profonda Un adulto poteva utilizzare da 20 a 50 sanguisughe messe anche su membrana interna, all’interno del naso, delle orecchie, sugli occhi. Dopo essersi nutrite le sanguisughe si staccavano sole senza provocare lesioni soggette a infezioni.

Il salasso veniva praticato dai barbieri anche nelle loro botteghe. Le botteghe che praticavano queste cure si identificavano mettendo fuori una ciotola per la raccolta del sangue e un’insegna a strisce: blu, rosse e bianca, che rappresentavano la pinza ematica, le arterie e le vene.

Nel 700 l’alimento più diffuso era la polenta, cibo a base di mais. Questo cereale non contiene la niacina (vitamina indispensabile per l’organismo), così i contadini che mangiavano solo polenta si ammalavano di pellagra, malattia terribile che si manifesta con piaghe in tutto il corpo che conduce alla pazzia e alla morte.



Amelia Casabona



RELIGIONE

"Questo ebreo, ignorante, chiacchierone e stupido in tutto fuorché nei suoi affari [...]"
Il ruolo degli ebrei nella finanza del '700

IL RUOLO DEGLI EBREI NELLA FINANZA DEL 1700

Per secoli gli Ebrei sono stati degli usurai malvisti dai cristiani per gli interessi molto alti che esigevano, si potrebbe pensare che siano andati contro la Bibbia, ma in realtà una sfumatura di significato nell’accezione della comunità faceva sì che gli Ebrei non abbiano violato le regole.



In generale, libri della Bibbia, in particolare quelli dell’Antico Testamento, vietano il prestito ad interesse, l’usura:

1) Nell’Esodo: “se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse”.

2) Nel Levitico: “se tuo fratello che è presso di te cade in miseria ed è privo di mezzi, aiutalo, come un forestiero e inquilino, perché possa vivere presso di te; non prendere da lui interessi né utili; ma temi il tuo Dio e fa vivere il tuo fratello presso di te; non gli presterai denaro a interesse, né gli darai il vitto a usura”.

3) Nel Deuteronomio: “non farai al tuo fratello prestiti ad interesse, né di denaro né di viveri, né di qualunque cosa che si presta ad interesse”.

Allo straniero potrai prestare ad interesse, ma non al tuo fratello, perché il Signore tuo Dio ti benedica in tutto ciò a cui metterai mano, nel Paese in cui stai per andare a prendere possesso”.

I seguenti passi sono esecrazioni e ammonimenti che in vario modo rafforzano i precedenti divieti presenti nel Neemia, nei Salmi, nei Proverbi, in Geremia e in Ezechiele:

• Neemia esorta i prestatori di denaro a condonare i debiti o a non esigere interessi dai propri fratelli;

• Nei Salmi viene annunciato che chi presta denaro senza fare usura, abiterà la tenda del Signore;

• Geremia condanna l’usura offrendo il proprio esempio di uomo giusto ai propri fratelli;

• Ezechiele ammonisce chi presta a usura ed esige interesse, perché non vivrà, costui morirà e dovrà a se stesso la propria morte.

In effetti, nel libro del Deuteronomio, non è consentita l’usura agli abitanti della comunità, per questo né gli ebrei potevano essere usurai con gli Ebrei, né i cristiani con i cristiani, ma dato che Ebrei e cristiani non si riconoscevano come appartenenti dello stesso popolo, era possibile che l’usura potesse avvenire tra persone di diverse fedi. Tuttavia,solo gli Ebrei fecero gli usurai con i cristiani e non avvenne il contrario: sebbene ciò fosse lecito nei libri dell’Antico Testamento, il Nuovo Testamento condanna l’usura quando gli interessi sono molto elevati, quindi, il buon cristiano, per non incorrere in punizioni ultraterrene, era lungi dall’essere usuraio.

Infatti, in una società agricola un prestito ad un povero dovrebbe essere un atto di bontà umana che dovrebbe essere fatto liberamente senza richiedere alcun ritorno. Per il creditore prendere interessi sul prestito sarebbe impoverire ulteriormente il mutuatario. Ma lo "straniero", l'uomo che è in visita per la terra di Israele, non è vincolato da questa legge. Egli pagherà gli interessi sui prestiti che gli fa Israele.

In generale, l’usura ebraica nacque come un prestito tra gli israeliti e il popolo cristiano, ma ben presto l’attività crebbe sempre di più finché alcuni ebrei incominciarono a lavorare con persone di più elevata classe sociale, arrivando sino alla nobiltà e ai monarchi, in questo caso si parla di ebrei di corte.

Gli Ebrei di Corte erano banchieri o uomini d'affari ebrei che hanno prestato denaro e hanno gestito le finanze di alcuni dei cristiani di case nobili europee, in primo luogo nei secoli XVII e XVIII. Nel periodo moderno, un Ebreo di corte è stato un banchiere ebreo che ha gestito le finanze, o prestato denaro a monarchie e nobiltà europee. In cambio dei loro servizi, gli Ebrei di corte hanno guadagnato dei privilegi sociali, tra cui, in alcuni casi l’aver riconosciuto lo status di nobile. Gli Ebrei di corte furono i precursori dei moderni finanzieri o segretari del tesoro. I loro posti di lavoro includevano l’aumentare dei ricavi per l'agricoltura fiscale, negoziare prestiti, essere maestri della zecca, la creazione di nuove fonti di reddito, mettere a punto nuove tasse e stipendiare i militari. Inoltre,essi hanno agito come dei banchieri personali per la nobiltà, raccogliendo i soldi per coprire la diplomazia personale del nobile e le sue stravaganze.

Gli Ebrei di corte erano amministratori esperti e uomini d'affari che hanno ricevuto i privilegi in cambio dei loro servizi. Si trovavano in Germania, Olanda e Austria, ma anche in Danimarca, Inghilterra, Ungheria, Italia, Polonia, Lituania, Portogallo e Spagna. Secondo Dimont, praticamente ogni ducato, principato, e il Palatinato del Sacro Romano Impero aveva un Ebreo di corte.

L'ascesa delle monarchie assolute in Europa centrale ha aumentato il numero di Ebrei, per lo più di origine ashkenazita, che negoziavano prestiti per i vari campi. Essi potevano accumulare incredibili fortune personali e ottenere influenza politica e sociale.L'Ebreo di corte aveva connessioni sociali e influenza nel mondo cristiano principalmente attraverso la nobiltà cristiana e la chiesa.

A causa delle posizioni precarie degli Ebrei, alcuni nobili potevano ignorare i loro debiti. Se il nobile sponsorizzante moriva, il finanziere ebreo poteva rischiare l’esilio o l’esecuzione. Il più famoso esempio di ciò avvenne a Wurttenberg, quando, dopo la morte dello sponsor Carlo Alessandro nel 1737, Giuseppe Oppenheimer andò in tribunale e in seguito fu giustiziato. Per evitare questo, alcuni banchieri nel 1700, come Samuel Bleichröder, Mayer Amschel Rothschild, o Aron Elias Seligmann, spostarono I loro commerci dalle corti a delle vere e proprie banche.

Gli Ebrei di corte hanno gettato le basi per le grandi famiglie di banchieri del XVIII secolo tra cui ci sono i Rothschild, che basandosi sulla fiducia familiare hanno istituito uno dei più potenti imperi finanziari degli Ebrei mai posseduto, che, verteva sull’arricchirsi a spesa dei clienti.

Indubbiamente, i clienti più colpiti dall’usura spietata erano i poveri, così, per salvaguardarli, i francescani organizzarono sistemi alternativi e più caritatevoli di prestito, come i monti di pietà e i monti dei pascoli (paschi), a cui il contadino poteva conferire il grano in erba, non ancora maturo, senza essere strozzato.

Ci furono anche altri mezzi per regolare l’attività ebraica: nel 1700 incominciarono ad esserci delle leggi contro l’usura, tra le quali, nel 1713, c’era anche lo Statuto della regina Anna di Inghilterra, che riduceva gli interessi. Negli USA già all’inizio del XVIII secolo vennero firmate delle leggi che vietavano gli interessi al di sopra dell’ 8%, queste leggi furono sostituite da un’altra che poneva al 6% il limite massimo degli interessi.

In ambito teologico, nel Settecento, iniziarono a venir poste delle questioni sulla legittimità dell’usura e alcuni teologi si batterono per l’emanazione di una legge che avrebbe limitato il prestito ad usura. Si formarono due correnti di pensiero che erano una a favore e l’altra contro l’attività ebraica, i due schieramenti erano in generale composti da gesuiti e rigoristi.

In questo clima di tensione, dovuta ai continui contrasti tra gesuiti e rigoristi, l’offensiva esplose nel 1743, in occasione della ristampa della Dottrina cristiana breve di Bellarmino, a cui erano state apportate alcune correzioni e aggiunte in senso rigorista proprio sul tema del prestito ad interesse. In risposta a questa pubblicazione, l’anno successivo, un nobile erudito veronese prese una posizione in controtendenza. Il marchese Scipione Maffei, infatti, difendeva nella sua opera “Dell’impiego del danaro” la “produttività” del denaro. Questi sosteneva che “il denaro non deve essere inteso come una quantità di monete abbandonate in una cassa, bensì come capitale utilmente impiegato come strumento commerciale. Come dire infruttifero uno strumento proteiforme, che in tutto può trasformarsi?”. Secondo Maffei, dunque, il denaro doveva circolare e dare frutto per il bene collettivo; egli inoltre accusava i rigoristi di “relegare all’antichità” temi di attualità che andavano giudicati con criteri legati alle circostanze presenti. A Maffei si oppose Pietro Ballerini, che pubblicò, tra il 1745 e il 1747 tre opere sull’usura, accusando il Maffei di aver “sconfinato”, non essendo teologo, in una materia non sua di cui non poteva cogliere tutti gli aspetti. “L’episodio veronese esplica in certo qual modo la funzione di portare a galla un mondo di idee e di dibattiti apparentemente sommerso, ma nel quale, sotto la superficie, già da tempo si agitavano problemi e si annunciavano scontri frontali. Era un dibattito europeo: se a Verona si avverte l’eco di polemiche in corso in Francia o nei Paesi Bassi, così anche all’estero si diffondono notizie relative ai fatti veronesi”. Oltre ai sostenitori di posizioni estreme, vi erano anche una serie di teologi e uomini di cultura che presero una posizione intermedia e si resero conto della problematicità del tema del prestito ad interesse. Maffei aveva deciso di dedicare il suo trattato a Benedetto XIV (papa dal 1740 al 1758), con una lettera in cui gli ricordava gli antichi rapporti di studio e di amicizia e in cui lo invitava a prendere chiaramente ed apertamente posizione sul problema dell’usura. Il papa gli rispose il 31 dicembre del 1744, inviandogli a sua volta una lettera in cui dichiarava di non aver ancora letto il suo libro. Sulla questione dell’usura il pontefice scriveva: “Noi concordiamo nella necessità di stabilire qualche regola; prenderemo principio dal nostro privato studio e poi passeremo a sentire gli altri. Ma vi è bisogno di tempo e sanità”. Ma il dibattito era ormai infiammato, e nel marzo del 1745 giunse da parte dell’autorità veneziana la proibizione del trattato del Maffei: il libro fu ritirato dal commercio, le copie minacciate di “abbruciatura”. La controversia era divenuta ormai di tale portata da rendere necessario l’intervento del papa. Maffei inviò a Benedetto XIV una Supplica alla Santità di Nostro Signore perché definisse la gran controversia intorno al frutto e all’Impiego del danaro. Nel novembre del 1745 il papa prese posizione sul tema del prestito ad interesse ed emanò l’enciclica “Vixpervenit”. Il crescente intrecciarsi di accuse reciproche fra rigoristi e probabilisti in materia di credito, convinse il pontefice ad intervenire sulla questione dell’usura: il primo novembre del 1745 egli pubblicò la lettera enciclica “VixPervenit”. L’enciclica “rappresenta sia il terminus ad quem del dibattito sul prestito ad interesse nella Chiesa moderna, sia il terminus a quo del successivo dibattito ottocentesco” e si articola in cinque punti fondamentali. Rifacendosi alla Sacra Scrittura e al pensiero dei Padri, Benedetto XIV definì l’usura secondo i termini tradizionali: “Ciascuno pretende che del prestito, il quale per sua natura vuole che si restituisca solo quello che fu ricevuto, gli sia reso più di ciò che fu preso; e perciò sostiene che oltre al capitale, gli è dovuto un certo guadagno a motivo del prestito stesso. Perciò ogni utile di questa specie, che superi il capitale, è illecito, ed ha carattere di usura”. Tale definizione non consentiva di esigere neanche un moderato interesse nei confronti dei ricchi, come invece sosteneva il marchese nel suo trattato. Nel secondo punto dell’enciclica si affermava che per cancellare il peccato di usura non si poteva “sperare di avere alcun aiuto dal fatto che tale guadagno non è esorbitante e eccessivo, ma moderato; non grande, ma piccolo; o dal fatto che colui, dal quale, solo a causa del prestito, si reclama tale guadagno, non è povero, ma ricco”. In questo modo si confutava la tesi del Maffei dell’esistenza di una distinzione tra “prestito a modico interesse” e “usura smoderata”. Secondo il pontefice, ciò che si esigeva oltre al capitale prestato, era da considerarsi usura e quindi da biasimare. D’altra parte nel terzo punto “non si nega che talvolta possano concorrere col contratto di prestito alcuni altri cosiddetti titoli, non completamente attinenti e intrinseci alla natura stessa del prestito; e da questi sorga una causa assolutamente giusta e legittima di chiedere, a ragione, qualcosa di più del capitale dovuto per il prestito”. Con queste affermazioni, Benedetto XIV sembra “attenuare” ciò che aveva affermato in precedenza, sostenendo così la liceità dei titoli estrinseci e pronunciandosi a favore della concezione maffeiana. Legittimando il prestito ad interesse attraverso i titoli estrinseci, il papa non contraddiceva quanto detto nel primo punto, ma ammetteva la possibilità che ci fossero delle condizioni particolari, quali il danno emergente e il lucro cessante, in cui era giusto esigere un moderato interesse. Nel quarto punto dell’enciclica si sottolineava come il rispetto dell’integrità del singolo fosse il presupposto a una corretta conduzione degli affari: se non è mantenuta l’eguaglianza di condizioni propria di ciascuno, è noto che quel che si riceve oltre il giusto ha a che fare se non con l’usura (dato che non vi è prestito né palese né simulato), certamente con qualche altra illegalità, che implica ugualmente l’obbligo di restituire. Il testo prosegue sottolineando il valore dell’attività commerciale che, praticata “secondo la bilancia della giustizia”, può “rendere numerosi i traffici umani e persino lucroso il commercio”. Bisogna dunque dare ascolto alla propria coscienza, in virtù della quale occorre accertarsi “se veramente insieme col prestito non si presenti un altro giusto titolo; e non si tratti invece di un altro con tratto diverso dal prestito, per mezzo del quale sia reso innocente e immune da ogni macchia il guadagno ottenuto. L’enciclica può essere considerata come una sorte di spartiacque, “un fronte di equidistanza sia rispetto dal rigorismo delle ‘aggiunte balleriniane’ (1743) sia alla Dottrina cristiana breve del Bellarmino, secondo le quali è usura ‘ogni minima cosa’ presa in più del capitale prestato, sia rispetto alle opposte tesi di Scipione Maffei (Dell’impiego del danaro, 1744)”.

Una difesa, o, meglio, un’accettazione dell’attività di usura era stata accettata da Robespierre, nella Francia dei primi momenti dopo la rivoluzione, infatti, dichiarando una completa libertà all’individuo, non si escludeva la libertà di aprire un’attività con prestito a interesse.

Inoltre, Jeremy Bentham, nel 1787nella sua opera, “Difesa dell’usura”, scrisse:

«Nessun uomo adulto e sano di mente, che agisca liberamente e con gli occhi ben aperti, dovrebbe essere ostacolato, con riguardo al suo vantaggio, dal compiere le transazioni che egli ritenga opportune per ottenere denaro: né [...] chiunque altro dovrebbe essere impedito dal fornirglielo nei termini a cui egli ritenga opportuno acconsentire.»

Con queste parole Bentham porta alle estreme conseguenze il principio dell'autonomia negoziale. Se la svolta calvinista aveva legittimato la pratica del prestito a interesse, non era stata però seriamente contestata la necessità di un limite massimo al saggio d'interesse. Limite legale che è privo di giustificazione - dice Bentham - come lo sarebbe imporre per legge un prezzo massimo nella compravendita dei cavalli. Limite che, fra l'altro, non è uno strumento adeguato né per evitare lo sperpero del denaro da parte dei prodighi e degli oziosi né per evitare i deleteri fenomeni di strozzinaggio.

Indubbiamente Bentham parla di pregiudizi. Il suo obiettivo è quello di confutare la concezione giudaico-cristiana del credito gratuito: Mutuum date, nihil inde sperantes, è scritto nel Vangelo secondo Luca, da un prestito non deve essere atteso alcun interesse. L’anatema contro gli usurai parte da questa idea, ripresa e rafforzata poi dai Padri della Chiesa e da Tommaso d’Aquino e solo in parte trasformato dalla concezione calvinista. Resta il fatto che "quando si spera di ottenere denaro, e per un breve periodo dopo averlo ricevuto, colui che presta è un amico, un benefattore; ma quando giunge l’ora funesta del rendiconto, il benefattore cambia fisionomia, diventa un tiranno, un’oppressore, un usuraio". Bentham è un anticonformista, nella patria della common law sosteneva un’eresia: la legge sull’usura avrebbe dovuto essere cancellata.

Alla base della difesa dell’usura c’è un principio libertario che sarà poi ampiamente sviluppato da John Stuart Mill in "Sulla libertà": per Bentham, lo Stato non si può occupare di reprimere una pratica i cui eventuali effetti negativi ricadono esclusivamente su chi la compie.

Altre posizioni erano totalmente opposte a questa, come quella di GavrivDerzavin, il maggior poeta russo prima di Puskin e funzionario zarista (fu ministro sotto Alessandro II), inviato nel 1796 a capire perché fosse scoppiata una carestia in Bielorussia (fertilissima "terra nera", dove la fame era stata sempre sconosciuta), documentò che i responsabili erano gli Ebrei. "Ingannano gli ubriachi, li spogliano dalla testa ai piedi, li gettano in completa indigenza." Fanno in modo che i contadini, indebitati presso di loro, "acquistino tutto ciò di cui hanno bisogno, a prezzi tre volte più cari, e non vendano la loro produzione agricola se non a loro, a prezzi inferiori a quelli reali".

In conclusione, gli Ebrei ebbero un impatto enorme nell’economia, ma anche società medievale e moderna, segnarono la svolta verso la cultura capitalistica, tipica dell’epoca odierna, ponendo domande sulla morale della loro attività, tema ben difeso da entrambe le posizioni di favore o opposizione. Tuttavia, alcuni pensatori si concentrarono più sulla relatività dell’usura, infatti, come scrive di William Blackstone, nei “Commentari delle Leggi d’Inghilterra”:

"Quando il denaro viene prestato su un contratto per ricevere non solo la somma capitale di nuovo, ma anche un aumento a titolo di risarcimento per l'utilizzo, l'incremento è chiamato interesse da parte di coloro che pensano che sia legittima, e usura da parte di coloro che non lo fanno."

Serena Agueci


Serena Agueci

E' un massone? Venezia - Archivio di stato
Nascita e diffusione della massoneria

NASCITA E DIFFUSIONE DELLA MASSONERIA


Le origini della massoneria risalgono alla costruzione del tempio di Salomone (che ebbe luogo circa 1000 anni prima della venuta di Cristo. Oggi la conosciamo sotto il nome di “massoneria moderna” nata ufficialmente il 24 giugno 1717 con la Gran Loggia di Londra, successivamente denominata Gran Loggia d’Inghilterra, risultato dell’unione di quattro logge londinesi, della quale fu eletto capo, con il titolo di gran maestro, Anthony Sayer. Nel 1717 nacque la massoneria ‘speculativa’ sostituendosi a quella “operativa” ,chiamata così perché i massoni medievali facevano ‘opere’,come la costruzione di edifici religiosi,militari e residenze di signori; mentre quella ‘speculativa’si occupava di edilizia e di problemi teorici.


Foto: La Freemason’s Hall di Londra, il quartiere generale della Gran Loggia Unita d’Inghilterra, Gran Loggia ‘Madre del Mondo’.

Tra i membri della loggia ebbero un ruolo preminente due pastori protestanti: il pastore anglicano John Theophilus Desaguliers (1683-1744), e il pastore presbiteriano James Anderson (1680 o 1684-1739) a cui si devono le “Costituzioni dei Liberi Muratori” (nella foto) adottate nel 1723.

Le prime testimonianze documentate della presenza massonica in territorio italiano risalgono al 1723. Ma ancora oggi non si hanno certezze riguardo la prima loggia massonica italiana, alcuni storici affermano che la prima sia sorta nel 1731 a Firenze, altri invece, nel 1723 in Calabria.

A Venezia la massoneria trova sviluppo nel 1746 e uno dei maggiori esponenti è Giacomo Casanova, il quale all’età di venticinque anni ne prenderà parte ed in seguito verrà arrestato(sistema giudiziario)temendo che diffondesse ancora di più la massoneria nella repubblica di Venezia.

Venezia, fu sede già nel XVIII secolo di importante loggia massonica. Essa era così ricca e potente da riuscire a far costruire un’intera chiesa seguendo le dottrine della massoneria: la chiesa di Santa Maria Maddalena a Cannaregio. Alcuni esponenti della famiglia Baffo, membri della Massoneria a Venezia, affidarono il progetto di questa chiesa ‘massonica’ all’architetto Tommaso Temanza, un confratello, che progettò un edificio perfettamente circolare in stile neoclassico e fece incidere sull’architrave della porta un simbolo della Massoneria, l’occhio inscritto in un cerchio e in una piramide, e l’iscrizione ‘SAPIENTIA EDIFICAVIT SIBI DOMUM’, un riferimento al culto per la divina sapienza, fondamento della massoneria. Lo stesso Temanza è seppellito dentro la chiesa e la sua pietra tombale è adornata da una riga e un compasso, il simbolo più importante della Massoneria, perché i confratelli si definivano ‘muratori’. Non è un caso poi che questa chiesa ‘massonica’ sia dedicata proprio a Maria Maddalena, personaggio enigmatico e spesso rifiutato dalla chiesa ufficiale, ma molto amato invece dalla Massoneria che vedeva in lei un simbolo di sapienza e della lotta contro l’oscurantismo.

La prima loggia massonica Veneziana, fu fondata da Pietro Grattariol (segretario del Senato), nel 1774. La loggia aveva sede nel Palazzo di Corte Da Mosto, situato nella parrocchia di San Marcuola: mentre altre logge sono sorte nella fondamenta delle Erbe a Santa Marin, a Palazzo Contarini, nel Sestriere di Santa Croce.




Andrea Tiezzi e Antonio Valenti

"Il secondo era di un Gesuita di cui avevo dimenticato il nome [...]"
Soppressione della Compagnia di Gesù

SOPPRESSIONE DELLA COMPAGNIA DI GESU'


Dapprima cacciata dai territori di Portogallo, Spagna, Francia, Napoli e dalle colonie del Sud e Centro America, nel 1773 la Compagnia di Gesù finisce per essere soppressa. Le corti borboniche esercitano una pressione talmente violenta su Clemente XIV da costringerlo, “per la pace della Chiesa”, a firmare il 21 luglio 1773 il decreto di soppressione della Compagnia di Gesù “Dominus acRedemptor”. Per la prassi del tempo, il documento pontificio deve essere accettato dai sovrani di Stato: è così che la Compagnia sopravvive in Prussia e in Russia.

Tra le motivazioni esplicite, e non che motivano la soppressione, stanno l’opposizione all’Illuminismo e al Giansenismo, la difesa di teorie in campo morale ritenute troppo lassiste; e, infine, l’antipatia suscitata dalla Compagnia nelle corti europee, che malvolentieri sopportano l’azione dei gesuiti a favore delle popolazioni autoctone, contro lo sfruttamento da parte di colonizzatori avidi, crudeli e senza scrupoli morali. (la soppressione della Compagnia)

Premessa

La Compagnia di Gesù fin dalla fondazione, nel secolo XVI, fu il principale ordine della Chiesa Cattolica con fini educativi. I GESUITI sono missionari che si muovono secondo gli ordini del papa: istituzione rara nel loro tempo di religiosi senza coro né chiostro, in missione nel mondo.La missione è l'essenza dell'ordine dei gesuiti. “Amare e servire” è il loro motto, che li riconosce come educatori, intellettuali e fondatori di scuole.

Quando nacque la Compagnia di Gesù erano già stati scoperti i cinque continenti, per cui, seguendo l'esempio degli apostoli, si lanciarono nelle terre di missione, che in quel periodo coincidevano con le colonie dell'impero portoghese e spagnolo. Già agli inizi del Seicento erano centinaia i Collegi diretti dai Gesuiti, non solo in Europa, ma anche in Asia e in America. I Gesuiti furono per due secoli gli istitutori dei principi cattolici e i confessori dei re.

Il loro potere, anche politico era immenso. I Gesuiti furono i missionari che più di tutti penetrarono in India e in Cina.

A causa della loro influenza sorsero con gli altri ordini religiosi forti antagonismi. In Oriente i Francescani, che prima si erano impegnati in azioni missionarie, accusavano i gesuiti di aver manipolato il messaggio evangelico per rendersi più accetti dalle classi colte della Cina e dell’India malabarica. In Occidente i governi portoghese e spagnolo mal sopportavano la larga autonomia di cui godevano le missioni gesuitiche dell’America latina.


In meno di due decenni, dal 1760 al 1780, quello che sembrava un impero politico e culturale inattaccabile venne completamente smantellato. Iniziarono le soppressioni della Compagnia in Portogallo, continuarono in Francia, in Spagna e negli stati italiani borbonici di Napoli e di Parma. I gesuiti espulsi, tra mille peripezie, trovarono ospitalità nello Stato della Chiesa. Papa Clemente XIII, a cui fu chiesta una bolla di soppressione universale, disse che si sarebbe tagliato una mano piuttosto che concederla.L'occasione si presentò alla morte di Clemente XIII, il 2 febbraio 1769. Lo storico Ludwig von Pastor, nel XVI volume della sua “Storia dei Papi”(Pastor, 1943), descrive con ricchezza di documentazione le manovre che si svolsero prima, durante e dopo il Conclave che, dopo ben 3 mesi e 179 votazioni, vide, il 14 maggio, l'elezione del francescano Lorenzo Ganganelli, con il nome di Clemente XIV. Il nuovo Papa fu eletto a condizione che abolisse la Compagnia di Gesù. Pur non mettendo per iscritto una promessa formale, che avrebbe comportato la simonia, il cardinale Ganganelli prese questo impegno con gli ambasciatori delle Corti borboniche. Lo Spirito Santo non mancò di assistere il Conclave, ma la corrispondenza alla grazia divina dei cardinali non fu certo adeguata, se la loro scelta si appuntò su un prelato che Pastor definisce «un carattere debole e ambizioso, che aspirava alla tiara».

Il 21 Luglio 1773, con la bolla Dominus ac Redemptori ,il papa Clemente XIV soppresse la Compagnia in tutto il mondo, decisione fortemente appoggiata dalle grandi potenze europee. La compagnia di Gesù all'epoca contava circa 23.000 membri in 42 province. «Questo Breve del 21 luglio 1773 – scrive Pastor – rappresenta la vittoria più manifesta dell'illuminismo e dell'assolutismo regio sulla Chiesa e sul suo Capo».

Centinaia di collegi vennero smantellati e le loro biblioteche disperse. Tra gli ex- gesuiti molti erano gli uomini di cultura, come Giovanni Andrés e Girolamo Tiraboschi, che continuarono ad operare, senza scontrarsi con gli esponenti moderati dell’età dei Lumi. Federico II di Prussia e la zarina Caterina II di Russia rifiutarono di applicare la bolla di soppressione nei loro territori e così i Gesuiti continuarono a dirigere collegi e a svolgere funzioni educative, giudicate indispensabili dai sovrani, in Slesia e in Bielorussia.

(Patergnani)

iCONTENUTO DOMINUS AC REDEMPTOR

Prima pagina del breve in latino.

Il breve è composto di 45 paragrafi.

Nell'incipit Clemente XIV ne dà il tono: Nostro Signore è venuto sulla terra come Principe della Pace. Questa missione di pace trasmessa agli Apostoli è un dovere per i successori di San Pietro, è responsabilità dei pontefici adempierla, incoraggiando le istituzioni che operano per la pace, e levando quelli che possono essere degli ostacoli ad essa. Nonostante l'Ordine non venga direttamente incolpato, il papa può decidere di sopprimerlo, per ragioni di concordia e di serenità nella Chiesa.In un lungo passaggio il papa esprime le ragioni che, a suo avviso, chiedono la soppressione della Compagnia di Gesù.

1. Esiste una lista di accuse contro la Compagnia di Gesù (ma nessun giudizio è dato sulla loro validità);

2. Il pontefice ricorda che durante la sua storia la Compagnia è stata sovente criticata (ma non indica se queste critiche fossero giustificate o no);

3. Il pontefice rievoca la preoccupazione di alcuni dei suoi predecessori a causa delle querelles tra cattolici sulle dottrine dei Gesuiti (ma la Compagnia non è rimproverata per questo).

In uno dei paragrafi conclusivi Clemente XIV pronuncia la sentenza di soppressione della Compagnia di Gesù, con alcune indicazioni sul modo di procedere.Passo centrale:“Con ben maturo consiglio, di certa scienza, e con la pienezza dell’Apostolica Potestà, estinguiamo e sopprimiamo la più volte citata Società, e annulliamo ed aboliamo tutti e singoli gli uffici di essa, i ministeri e le amministrazioni, le case, le scuole, i collegi, gli ospizi, e qualunque altro luogo esistente in qualsivoglia provincia, regno, e signoria, e in qualunque modo appartenente alla medesima”.


Entrata in vigore del breve

Con un secondo breve Gravissimis ex causis del 16 agosto venne istituita una commissione, composta da cinque cardinali, incaricata di mettere in pratica il breve. Essa aveva compiti di supervisione e di risoluzione dei problemi pratici posti dalla soppressione. Due giorni dopo il cardinale-presidente della commissione ordinò a tutti il vescovi di promulgare e pubblicare il breve in tutte le case, residenze e collegi dei gesuiti, alla presenza delle comunità riunite.

Questo approccio inusuale provocò non pochi problemi. Nei paesi europei non cattolici di Prussia e Russia, i rispettivi sovrani impedirono ai vescovi cattolici di agire come dettato da Roma e ordinarono ai Gesuiti di continuare le loro attività come fino ad allora.

(Contenuto Dominus Ac Redemptor)

• CAUSE E SPIEGAZIONI

“…È provato dunque che la soppressione dei Gesuiti non assicurò l’integrità degli Stati, e della Chiesa, ma al contrario che la mano, che sottoscrisse la distruzione di quell’ Ordine, segnò anche l’imprigionamento di Pio VII, e l’oltraggio della Chiesa, l’abbassamento e l’umiliazione della Santa Sede. Il Breve di soppressione di Clemente XIV era quindi manifestamente il risultato di una politica pusillanime, e circoscritta.“ (Dallas, 1835)

I gesuiti accettarono la decisione del papa senza opporsi. Il Generale dell'ordine dell'epoca, Lorenzo Ricci, venne fatto prigioniero a Castel Sant'Angelo fino alla morte, nel 1775. Allora c'erano circa 23.000 gesuiti, che dirigevano 700 scuole.

Varie sono le cause che portarono alla soppressione. I gesuiti avevano il privilegio di non pagare le decime e avevano problemi con i vescovi e con altri ordini religiosi dell'epoca. Erano vicini al potere. Godevano poi l'autonomia che aveva dato loro il Papa prima della soppressione e lo straordinario adattamento culturale nelle missioni.

In questo senso, l'aspetto più controverso secondo i loro avversari furono i cosiddetti riti cinesi e di Malabar (India), proibiti da Roma. I protestanti non li volevano per la loro ferrea difesa della dottrina cattolica.

“Dunque, a dire del Botta, tre furono le cause principali della soppressione dei Gesuiti. La prima martellata che diedero essi medesimi all'edificio Ignaziano fu la distruzione di Portoreale, dotta, gradita e virtuosa sede de' Giansenisti, i quali però tassavano la santa sede di bugia e di prepotenza, pendevano verso il protestantismo, e predicavano il fatalismo de' Turchi. La seconda martellata fu il rifiuto di accettare sotto la loro direzione persone che molto potevano in corte, mentre però lo stesso Botta non ha finito mai di accusarli perché volevano comandare a chi comanda, guidando appunto le coscienze dei potenti e dei grandi. La terza causa della soppressione venne dall'odio, dalle accuse e dalla persecuzione dei filosofi, i quali però odiavano il Cristianesimo, e volevano rigenerare il mondo levandone la religione. Queste cose il Botta le sa, le confessa, e pure dice che la soppressione de' Gesuiti fu l'opera del dito di Dio. Di poi il Botta rifrigge le vecchie accuse intorno al mercanteggiare di essi, le quali accuse già tante volte sventate si riducono a questo che i Gesuiti d'Europa e d'altre parti vendevano o barattavano il sopravanzo de' generi raccolti nelle loro terre o ricevuti per carità; e se questo è il mercanteggiare vietato dai canoni agli ecclesiastici, mercanti sono tutti i preti e tutti i vescovi che vendono i frutti delle loro mense, mercante il Papa, che vende i prodotti de' fondi camerali, e mercanti sono ancora i cappuccini, che barattano contro candele nuove le sgocciolature e i moccoli.” (Carlo Botta, 1844)

“Ma adesso - in un libro pubblicato dal Mulino, I gesuiti - Claudio Ferlan approfondisce le remote cause della decisione di Clemente XIV e giunge alla conclusione che «l’immagine del declino sia piuttosto stata costruita a posteriori, al fine di trovare una spiegazione alla soppressione del 1773». Declino? In Francia, ricorda Ferlan, «i padri della Compagnia avevano ricoperto il ruolo di consiglieri dei re dalla fine del Cinquecento e lo avrebbero mantenuto fino alla dissoluzione». In questo lungo periodo «i loro collegi furono luoghi privilegiati per la formazione di buona parte delle élite nazionali, culturali e politiche». Ad esempio, frequentarono il Collegio Louis-le-Grand Molière, Voltaire, Diderot e Robespierre; in quello di La Flèche studiò Cartesio. Luigi XIV, scrive Ferlan, «aveva riposto una notevole fiducia nei confronti di due ignaziani, François Annat e François de La Chaize, scegliendoli come confessori». Inoltre alcuni professori del Collegio Louis-le-Grand pubblicarono tra il 1701 e il 1762 l’importantissimo mensile «Mémoires pour l’Histoire desSciences et desBeaux-Arts» (noto come «Journal de Trévoux» dal nome della località della Borgogna in cui aveva sede la sua stamperia), che raggiunse l’obiettivo di mettere a disposizione di chiunque fosse interessato dettagliati commenti sulle principali opere che erano state pubblicate nella prima metà del Settecento. La verità è che la guerra ai gesuiti era iniziata e si era sviluppata già un secolo prima in un altro continente, l’America Latina. In ragione della loro ostilità alla schiavismo. Come hanno ben documentato Jean Andreau e Raymond Descat in “Gli schiavi nel mondo greco e romano” (Il Mulino) «è nel corso dell’alto Medioevo che si sono prodotti i cambiamenti più importanti e che si è definitivamente usciti, in Europa occidentale, dalla società schiavista». “

(Mieli, 2015)


Diverse sono le interpretazione alle cause del perché il potere politico era interessato a colpire i Gesuiti; un’interpretazione consiste nel vedere i Gesuiti come baluardo più forte del Papato. L’intenzione ultima sarebbe stata quindi quella di colpire il Papa stesso attraverso l’Ordine che principalmente lo difendeva. Probabilmente la rivolta contro i Gesuiti avvenne per i seguenti motivi:

 La Compagnia occupava posizioni di potere che nessun altro ordine religioso aveva in tale misura: nel campo dell’educazione e delle cattedre teologiche per esempio; ma anche per il ruolo di confessori nelle corti cattoliche: a partire dal 1750 i confessori gesuiti cominciarono ad essere sostituiti da confessori di tendenza prevalentemente giansenistica.

 Ci furono due fasi della lotta contro la Compagnia:

 Sotto papa Clemente XIII (1758-1769)

 Sotto questo pontificato ci furono molte richieste di soppressione dell’ordine ma il papa si rifiuta.

 In questa fase il papa solidarizzò con i Gesuiti contro le corti.

 Sotto Clemente XIV (1769-1774)

 Francescano conventuale. Viene scelto perché su di lui convergono pareri diversi, sia di chi pensa che sopprimerà la Compagnia sia di chi pensa che possa salvarla. Di fatto cercò di temporeggiare, dicendo che per sopprimere l’Ordine ci sarebbe voluto il consenso di tutte le corti cattoliche. Alludeva all’Austria, dove Maria Teresa conservava simpatie per i Gesuiti. Ma questa scappatoia venne meno nel momento in cui Maria Teresa diede la figlia Maria Antonietta al principe ereditario francese, e Parigi consentì solo alla condizione che Vienna accettasse la soppressione dei Gesuiti. Papa Clemente XIV soppresse la Compagnia nel 1773 con il breve “Dominus ac Redemptor”. Il breve pontificio, dopo aver ricordato le accuse rivolte da varie parti alla Compagnia, senza entrare nel merito, si appella per giustificare la soppressione alla necessità di una durevole pace, che sarebbe impossibile da raggiungere se l’Ordine fosse restato in vita.

 Nel 1794 Ferdinando di Parma ristabilisce i Gesuiti nel suo ducato con l’aiuto del gesuita Giuseppe Pignatelli. In quella occasione scrive a papa Pio VI ricevendo una risposta strana: il papa gli diceva in pratica di non conoscere la decisione di sua altezza, benché sapesse. Il Papa desiderava essere informato di tutto ciò che riguardava i Gesuiti, ma non ufficialmente.


Nel frattempo, diversi avvenimenti si succedettero, uno tra questi fu la rivoluzione francese, ma soprattutto l’anno del terrore nel 1792.L’opinione comune era che tutto ciò non sarebbe successo con la presenza dei Gesuiti, per cui da più parti si cominciava ad invocare la ricostituzione dell’Ordine.

I Gesuiti erano sopravvissuti in Russia, dove Caterina aveva proibito la pubblicazione del Breve di soppressione e ordinato ai Gesuiti di continuare la loro opera di formazione della classe dirigente.Ma questo permesso “laico” non poteva bastare ai Gesuiti: era di per sé una contraddizione un ordine di Gesuiti non voluto dal Papa!

La rivoluzione francese determinò una frattura tra illuminismo moderato e movimenti radicali, e si aprì per la Chiesa un’epoca drammatica, che vide l’invasione giacobina della città di Roma e la deportazione dei due successori di Clemente XIV: Pio VI e Pio VII. La resistenza alla Rivoluzione fu assicurata in questo periodo soprattutto da un’associazione segreta, le “Amicizie cristiane”, fondate a Torino dall’ ex-gesuita svizzero Nikolaus Albert von Diessbach.Tacitamente reintrodotti a Parma agli inizi dell’Ottocento i Gesuiti trovarono comprensioni e complicità in ambienti clericali anche nel periodo napoleonico. La svolta avvenne con Pio VII che a partire dai primi anni del 1800 cominciò a ravvivare l’Ordine dei Gesuiti con l’aiuto dei gesuiti sopravvissuti in Russia.Già nel 1801 Pio VII confermò ufficialmente la continuazione della Compagnia in Russia con il Breve “Catholicaefidei”, ma non poté ristabilirlo in tutta la Chiesa a causa dell’opposizione di Napoleone, di cui lo stesso Pio VII si ritrovò prigioniero a partire dal 1809.Dopo la sconfitta di Napoleone, solo due mesi e mezzo dal suo rientro a Roma dall’esilio francese, Pio VII portò a compimento la restaurazione della Compagnia con la Bolla “Omnium ecclesiarum” del 7 agosto 1814. In realtà fu un colpo a sorpresa, neppure i nunzi erano stati preavvertiti, e a parte Parma e Napoli, gli altri Regni erano contrari.

I gesuiti interpretarono la soppressione del 1773 e ne diedero lettura nel corso dell’ottocento.In generale si può dire che l’interpretazione fu di tipo ultramontanista, cioè lo scopo era difendere il papato. L’interpretazione pertanto fu che il papato si era trovato indebolito e costretto a prendere quella decisione.

Se è vero che la Compagnia è caduta nel 1773 a causa delle sue posizioni conservatrici e se la Compagnia ricostituita nel 1814 divenne un baluardo contro la rivoluzione, si capisce che il rapporto con la modernità è sempre stato un problema. Se a ciò aggiungiamo che con il generalato di Arrupe i problemi con Giovanni Paolo II furono

legati proprio alle aperture alla modernità (questione della giustizia, opzione per i poveri, teologia della liberazione…) e che attualmente il primo papa gesuita è apprezzato o contestato proprio per quelle che sembrano aperture alla modernità, allora dobbiamo dedurne che c’è qualcosa da indagare in questo rapporto tra Compagnia e modernità.

In altre parole potremmo dire che questo è il rischio di chi accetta la sfida di stare alla frontiera: la frontiera è sottile e a volte sfuggente. Occorre prudenza per non mettere il piede dalla parte sbagliata. Ma non si può essere gesuita senza accettare questo rischio.

(Soppressione e ricostituzione della Compagnia di Gesù, 2014)

La soppressione stato per stato(in Europa)

• Portogallo

L'assalto contro l'ordine cominciò nel Portogallo. Nel 1749 il re del Portogallo, Giovanni V, vuole a Lisbona un gesuita, Malagrida, perché gli faccia da padre spirituale. Lo ammira, gli è devoto, così come sua moglie, Maria Anna d’Austria. Di lì a poco, però, Giovanni muore (1750) e suo figlio, Giuseppe I, nomina Malagrida consigliere per i possedimenti d’oltremare e lo rispedisce in Brasile. Dopo una campagna di libelli diffamatori e l'esecuzione del vecchio padre Gabriele Malagrida, il ministro Pombal, capo del governo, fautore dell'assolutismo monarchico, entrò in aperto conflitto con i gesuiti per la vicenda delle reducciones brasiliane.Il marchese inviò a papa Benedetto XIV una relazione in cui accusava i gesuiti di avidità di denaro e sete di potere e li denunciava di essere al centro di scandalose operazioni commerciali, il che costrinse il pontefice a inviare in Portogallo il cardinale Saldanha a compiere un'inchiesta; Benedetto XIV era scettico verso le gravi accuse mosse all'ordine e pertanto se da un lato nominò una "indagine minuziosa", dall'altro fece di tutto per salvaguardare la reputazione della Compagnia, pretendendo che tutti i risultati gli fossero direttamente corrisposti. Papa Benedetto morì il 3 maggio successivo e il 15 maggio il Saldanha concluse che i gesuiti avevano esercitato "un commercio illecito, pubblico e scandaloso" sia in Portogallo che nelle sue colonie; i gesuiti furono anche accusati di essere coinvolti nel fallito attentato a Giuseppe I del 1758. Agli inizi del 1759 il re ordinò di confiscare tutte le proprietà dell'ordine e pochi mesi dopo ne decretò l'espulsione, fece arrestare e deportare nello Stato pontificio tutti i Gesuiti del Portogallo, del Brasile e dell'India tra il 1759 e il 1761. Le relazioni diplomatiche tra Portogallo e Roma rimasero interrotte sino al 1770.


• Francia

La soppressione dei gesuiti in Francia ebbe inizio in Martinica, un'isola che era anche colonia francese, dove la Compagnia di Gesù aveva molti interessi commerciali, gesuiti erano in testa a tutti gli altri ordini e la loro grande missione disponeva di piantagioni con molta popolazione locale al loro servizio.I problemi per la Compagnia in Francia cominciarono con la condanna per bancarotta fraudolenta del gesuita Antoine La Vallette decretata dal parlamento di Parigi, dominato da elementi giansenisti e gallicani e in cui era ben radicato il movimento antigesuitico. Una sentenza emessa nel 1760 obbligava i gesuiti a pagare o a subire delle confische in caso di non pagamento. Il 6 agosto 1761 il parlamento ordinò di bruciare pubblicamente le opere di ventitré gesuiti (tra i quali Bellarmino) in quanto lesive della morale cristiana e ai gesuiti di chiudere i loro collegi, nei quali si sarebbe esercitata una cattiva influenza sui giovani: Luigi XV cercò di far sospendere l'esecuzione della sentenza,ma l'intervento del re portò ad altri otto mesi di ritardo, proponendo un compromesso. Se i gesuiti francesi si fossero separati dall'ordine generale, ponendosi sotto un vicario francese, seguendo i costumi francesi e i precetti del gallicanesimo, la corona avrebbe continuato a proteggerli. Malgrado i pericoli di un rifiuto i gesuiti non acconsentirono alla proposta, la debolezza politica del re lo costrinse alla fine a piegarsi di fronte alle pressioni dei parlamenti e a rendere esecutivo il decreto.Verso la fine di novembre del 1764, il re siglò l'editto per la soppressione dell'ordine e per la requisizione delle loro proprietà, in particolare nella Franca Contea, in Alsazia e nell'Artois, ma si premurò di cancellare dall'editto una serie di colpe che venivano addossate alla Compagnia, commentando "Se adotto le visioni di altri per la pace del mio regno, voi dovete accogliere i cambiamenti che propongo, o non farò nulla di quanto detto."

• L'Impero spagnolo e Napoli

Dalla Spagna i gesuiti furono cacciati da Carlo III, per il quale i religiosi rappresentavano un ostacolo nella realizzazione dell'assolutismo monarchico: essi infatti avevano sempre preso posizione contro la filosofia regalista e avevano un forte legame con l'aristocrazia ostile alla politica del sovrano. Inoltre, il ministro Campomanes accusò falsamente i gesuiti di essere gli istigatori di una rivolta, inducendo Carlo III a credere che essi stessero complottando contro di lui. Tutti questi elementi concorsero a spingere il re a emettere il decreto di espulsione il 27 febbraio 1767, fece arrestare nella notte tra il 2 e il 3 aprile del 1767 e deportare in Italia tutti i Gesuiti del regno.

La seconda tappa della cacciata dei gesuiti -e cioè il trasporto marittimo dei religiosi verso lo Stato della Chiesa- terminò invece in ben altra maniera: le difficoltà nel reperire e rifornire un'ingente flotta con la quale trasportare i gesuiti nello Stato pontificio fecero subire alla fase «marittima» dell'espulsione vari contrattempi. Infine il netto rifiuto di Clemente XIII e del Segretario di Stato Torrigiani ad accogliere i religiosi spagnoli nel maggio 1767 (quando ormai alcuni convogli si trovavano già a Civitavecchia) costrinse il governo a individuare una destinazione alternativa. Dopo febbrili trattative diplomatiche, le corti borboniche decisero di sbarcare con l'assenso della Repubblica di Genova gli scomodi religiosi in Corsica. Finalmente nel luglio 1767 si concludeva il lungo periplo delle navi spagnole per il Mediterraneo: i primi contingenti degli ignaziani mettevano piede sull'isola ancora in preda alla guerra civile.

L'anno della permanenza in Corsica (luglio 1767-settembre 1768) fu certamente il più critico che l'Assistenza spagnola -in particolare le sue quattro Province metropolitane- dovette sopportare nel corso del lungo esilio. La difficile situazione economica e «ambientale» che i religiosi furono costretti ad affrontare al loro arrivo (ben descritta dai molti diari che non pochi gesuiti cominciarono allora a redigere) mise a dura prova la solidarietà interna delle singole Province. Di questa situazione cercò di approfittare il governo spagnolo, in particolare Campomanes: attraverso l'illusoria prospettiva di un pronto ritorno in patria e specifiche gratifiche in denaro, il fiscal de lo civil del Consiglio di Castiglia riuscì a incentivare le secolarizzazioni e la fuga di centinaia di gesuiti (in particolare coadiutori e novizi) dalle città corse verso Genova, Livorno e Roma. Si verificò ben presto un «duello a distanza» tra Madrid e i Provinciali: mentre quest'ultimi tentarono di rinsaldare i ranghi delle loro comunità attraverso un difficile ritorno alla normalità (che passò attraverso la ricostruzione dei collegi, la gestione comunitaria delle pensioni pubbliche, il rispetto delle devozioni gesuitiche e un buon rapporto con P. Paoli), il Consejo Extraordinario si impegnò a disarticolare ciò che rimaneva della struttura organizzativa delle singole Province. A questo scopo vennero inviati sull'isola due commissari regi -P. Laforcada e F. Coronel- con l'esplicito compito di convincere i gesuiti indecisi o esasperati dalle difficili condizioni di vita a uscire «volontariamente» dalla Compagnia. Questa strategia dette ottimi frutti dal momento che le ultime statistiche stilate dagli storici iberici dimostrano che il picco più alto delle secolarizzazioni venne toccato proprio durante l'esilio in Corsica.

Nell'agosto 1768 fu invece Luigi XV, divenuto ormai sovrano dell'isola, a espellere i gesuiti spagnoli: con questa nuova espulsione iniziava effettivamente l'esilio italiano dell'Assistenza spagnola.Mentre giungevano in Corsica i primi gesuiti americani, i religiosi delle quattro Province metropolitane vennero trasferiti dai militari francesi a Genova e a Sestri Levante. Da qui, in piccoli gruppetti scaglionati, dovettero attraversare a piedi le montagne liguri (in pieno autunno) e giungere nelle Legazioni pontificie attraversando i ducati di Modena e Parma; parte delle Province di Toledo e Andalusia raggiunsero invece Bologna attraverso il Granducato di Toscana. Frattanto le autorità papaline, dopo aver preso contatto con i Provinciali, decisero di assegnare una città con il suo contado ad ogni Provincia: Bologna e la campagna limitrofa vennero attribuite alla Provincia di Castiglia e a parte di quella messicana; a Ferrara furono concentrati i componenti restanti della Provincia messicana e gli ignaziani peruviani ed aragonesi; Imola venne assegnata ai gesuiti cileni, Forlì alla Provincia di Toledo, Rimini agli andalusi; le Province del Paraguay e di Quito vennero distribuite tra Ravenna e Faenza. Le cittadine delle Marche e dell'Umbria -Ancona, Pesaro, Fano, Senigallia, Gubbio, Perugia, Assisi, ecc.- vennero assegnate alla Provincia di Nuova Granada e a piccoli gruppetti di singole comunità provinciali7. Un centinaio di espulsi finì per stabilirsi in Liguria (tra Genova e Massa Carrara), mentre Roma diventava la meta di tutti coloro che intendevano secolarizzarsi. Inizialmente il governo spagnolo vincolò l'erogazione della pensione vitalizia all'obbligo di risiedere nelle città assegnate; ma in seguito all'estinzione canonica il divieto venne rimosso e quindi i gesuiti poterono scegliere di stabilirsi anche al di fuori dello Stato pontificio dietro la presentazione periodica di una «fe de vida»: J. Andrés, ad esempio, decise di risiedere a Mantova, mentre decine di gesuiti si trasferirono a Venezia (dove incontrarono, in qualità di ambasciatore, una loro vecchia conoscenza: Squillace). Il divieto di residenza, già previsto dalla Prammatica di espulsione, rimase in vigore invece per gli Stati retti da sovrani borbonici: non solo Napoli e Parma, ma anche il Granducato di Toscana dove regnava Maria Luisa di Borbone.A Napoli, sotto il comando di Tanucci e il regno di Ferdinando IV il 3 novembre 1767 i gesuiti, senza regolare processo, vennero presi e accompagnati alla frontiera con lo Stato della Chiesa,e minacciati di morte in caso di ritorno in patria. (Soppressione della Compagnia di Gesù, s.d.)

Le ragioni che portarono all’espulsione dei gesuiti dalla monarchia spagnola sono state da tempo enucleate dalla storiografia. L’esilio appare l’epilogo di un aspro conflitto politico che, iniziato alla fine del regno di Filippo V, termina nel 1767 con la cacciata della Compagnia di Gesù. Durante i primi anni del regno di Carlo III(1759-1766) infatti, i gesuiti –i quali avevano fino ad allora controllato, attraverso i propri confessori, la coscienza dei sovrani borbonici – contribuirono a boicottare con successo una serie di riforme di carattere regalistico che l’eterogeneo “partito” riformatore, guidato dal ministro siciliano Squillace, aveva tentato di varare: in particolare l’intervento della Compagnia si era rivelato fondamentale nel ritardare e quindi affossare un innovativo (almeno per la realtà iberica) progetto di legge limitativo delle mani morte avanzato dal fiscal del Consiglio di Castiglia, Pedro Rodriguez de Campomanes. … La soppressione canonica del 1773, considerata fin dall’epoca un successo della monarchia spagnola e del suo plenipotenziario José Monino, inviato a Roma per questo scopo, rappresentò per gli ignaziani iberici un ulteriore evento traumatico, benchè atteso: essi, infatti, dovettero sciogliere le comunità rifondate appena il lustro precedente”. Per di più, oltre alle norme previste dal breve Dominus acRedemptor- datato 21 Luglio 1773, ma pubblicato il 16 Agosto successivo – e le rigide disposizioni emanate dalla speciale congregazione cardinalizia “de rebus jesuiticis”, gli ex gesuiti spagnoli dovettero sottostare ad una serie di regole aggiuntive emanate dal ConsejoExtraordinario”. Negli anni immediatamente successivi all’estinzione – almeno fino a quando Monino rimase a Roma in qualità di plenipotenziario (e cioè fino al dicembre 1776) – gli ignaziani spagnoli furono infatti soggetti ad un’intensa sorveglianza da parte delle autorità pontificie e borboniche: la diplomazia spagnola, ad esempio, avversò il reclutamento dei gesuiti spagnoli da parte dei vescovi italiani – possibilità esplicitamente prevista dal Dominus acRedemptor e dalla circolare della congregazione gesuitica del 1 settembre 1773 riguardante i secolarizzati – e cercò di impedire che gli espulsi ricostituissero surrettiziamente gli antichi collegi. Determinante in questa attività di sorveglianza, oltre ai comisarios residenti nelle legazioni, risultò essere l’aragonese José Nicolàs de Azara, agente de preces spagnolo presso la Santa Sede dal 1765 al 1798 (dal dicembre 1784 anche ambasciatore della Corona spagnola): profondamente antigesuita e amico di Roda, egli divenne l’uomo di fiducia del ConsejoExtraordinarioe della Segreteria di Stato su ogni questione che riguardasse il ramo spagnolo della disciolta Compagnia”. Tra le molte incombenze a lui affidate vi era anche quella di giudicare il valore delle opere che i gesuiti iberici desideravano stampare in Italia; solitamente il governo spagnolo seguiva le sue indicazioni dal momento che ad una profonda conoscenza del mondo curiale egli univa una preparazione culturale notevole.

(Guasti, 2006)



• Parma

L'indipendente Ducato di Parma era la più piccola tra le corti borboniche. L'aggressività anticlericale dei parmigiani alla notizia dell'espulsione dei gesuiti da Napoli fu tale che Clemente XIII inviò il 30 gennaio 1768 un avviso pubblico imponendo ai cattolici del ducato di non reagire in tal modo. La reazione fu ben più violenta di quanto previsto al punto che i gesuiti vennero espulsi dai confini del ducato e tutti i loro beni vennero confiscati dal governo.

• Malta

Malta era da lungo tempo stato vassallo del Regno di Sicilia e il gran maestro dell'ordine, Manuel Pinto de Fonseca - di origini portoghesi - aveva seguito quanto attuato nella sua patria d'origine espellendo i gesuiti dall'isola e incamerando i loro beni. Questo processo permise la fondazione dell'Università di Malta con decreto firmato dallo stesso Pinto il 22 novembre 1769, fatto che ebbe una notevole importanza sotto l'aspetto sociale e culturale per Malta La Chiesa dei Gesuiti, una delle più antiche chiese de La Valletta, mantenne il suo nome inalterato sino ad oggi.

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Rosanna Marano

Rosanna Marano

COMUNICARE E VIAGGIARE

"Aveva fatto preparare per me una gondola a quattro remi [...] per poi prendere una carrozza postale [...]"
I mezzi di trasporto

I mezzi di trasporto nel '700




A Venezia nel Settecento gli spostamenti avvenivano prevalentemente attraverso la fitta rete di canali, pullulanti di imbarcazioni: tra tutte spicca la gondola, da sempre emblema della città, simbolo di distinzione delle classi agiate.
La città era abitata da una popolazione che usava la barca non solo come mezzo per muoversi, ma anche come svago , raffinato ,diverso e  piacevole. Si evadeva dal traffico cittadino, nuotando fra le acque.
Da Venezia ci si poteva facilmente spostare verso Roma o Milano, poiché solcate dalle grandi direttrici, che si insediavano nella parte centrale della penisola e non nella fascia costiera, in quanto la popolazione risiedeva nelle zone collinari. Inoltre la maggiore densità stradale si stanziava nell’ Italia settentrionale, ma anche il Mezzogiorno non era da meno; Napoli era collegata a Roma e così anche Bari.
Le numerose strade che solcavano tutta la penisola erano attraversate da svariati mezzi di trasporto, che si differenziavano in base a chi si trovava all’ interno della vettura.
Le donne,gli ecclesiastici e gli anziani preferivano la diligenza che però era molto scomoda. Riguardo a questo ricordiamo, infatti, una lettera di Mozart  inviata ad un amico nella quale parlava di un suo viaggio in diligenza, dicendo che il sedile era duro come la pietra e che non avrebbe mai pensato di poter portare il suo sedere fino a Monaco, poiché rosso come il fuoco. Dunque, per rendere più gradevole il viaggio vennero apportate delle modifiche capaci di elevare la diligenza in quel che poi venne chiamata carrozza, che poteva portare fino ad otto passeggeri.
I viaggi in carrozza erano interminabili, anche perché vi era quel che possiamo definire l’antenato del codice stradale, ovvero dire che il galoppo era vietato, in campagna aperta si poteva andare al trotto ma in città si doveva procedere al passo. Per quanto riguarda il mezzo di trasporto a noi più vicino,cioè dire nella nostra isola, il mezzo utilizzato era la lettiga trasportata da due muli, che vedeva dentro ovviamente i Grandi della Sicilia. Le dame ,invece,utilizzavano  la portantina trainata da un cavallo.
Ma ciò che caratterizzava veramente le strade del ‘700 erano gli spostamenti dei reali,infatti, quando un sovrano  viaggiava il suo personale aveva il dovere di seguirlo, questo ne implicava una carovana di carrozze che si potevano udire da chilometri, poiché anticipate dai trombettieri. Per non parlare delle carrozze che trasportavano gli utensili del sovrano, e dato che molto spesso durante i viaggi carri e carrozze si guastavano, vi era anche un fabbro ferraio nell’ equipaggio.
Spostandoci un po’ più su, in direzione della Francia, possiamo scorgere una novità che si appresta a  scoprire il cielo:  si tratta della mongolfiera, ideata dai fratelli Montgolfier ,ai quali ne deve il nome. I primi esperimenti di volo risalgono al 1783,dove vennero osservate ed eseguite le leggi di Archimede.L’esperimento ,nei primi anni dell’ottocento, divenne un vero e proprio mezzo di trasporto che, però, preserva la magia e la poesia dei primi voli.
Rimanendo sempre in terre straniere,nella seconda metà del ‘700, si sviluppò in Inghilterra quella che passò alla storia come “Rivoluzione Industriale”, che influenzò come non mai il campo degli spostamenti di tutta Europa.
Fu  sfruttato un nuovo combustibile: il vapore, da cui ne deriva l’invenzione e l’utilizzo della macchina a vapore, che sfrutta pienamente i principi della termodinamica.
La nuova creazione di Newcomen preannuncia il futuro missile e protagonista di tutte le ferrovie europee dell’ 800 : la locomotiva a vapore.


Miriana Amata

"[...] visitai tutta Italia, le due Grecie, l' Asia minore, Costantinopoli e le più belle città della Francia e della Germania."
Il Grand Tour e la nascita del turismo

IL GRAND TOUR E LA NASCITA DEL TURISMO

L’espressione “Grand Tour” fu adottata per la prima volta da Richard Lassels nel 1968 nella sua opera “An Italian Voyage”.



Il termine ‘tour’ indica un giro particolarmente lungo, con partenza e arrivo nello stesso luogo. Dal punto di vista cronologico la nascita del Grand Tour si può collocare nel 1604: dopo la pace tra l’Inghilterra e la Francia, l’Europa entra in una fase di prolungata stabilità politica. Approfittando di questa situazione ,giovani universitari europei e nobili iniziarono a viaggiare per l’Europa.

L’epoca d’Oro della pratica del Grand Tour è settecento, gli avvenimenti che porranno fine a questo tipo di esperienza formativa sono stati la Rivoluzione Francese e l’ascesa di Napoleone Bonaparte nel 1796.

La nazione capofila del Grand Tour è l’Inghilterra, inspirata dalle pagine di “Of Travel” del filosofo Francis Bacon, furono i primi a considerare il viaggio d’istruzione una tappa fondamentale per la formazione dei giovani rampolli delle case aristocratiche. Il legame tra il Grand Tour e l’istruzione era così stretto che la Corona inglese finanziava i viaggiatori con una somma di denaro annua, circa 300 sterline.

I grandtourists erano giovani di età compresa tra i sedici e i ventidue anni, spesso erano accompagnati da un precettore o da tutor, scelto tra artisti, letterati e uomini di cultura. Di norma,nel settecento,il Grand Tour durava fra i sei e i diciotto mesi e in certi casi anche tre anni; in età successiva al settecento la durata del viaggio fu abbreviata, non si trattava più di un viaggio culturale ma di un semplice viaggio mosso da curiosità personale. I mezzi utilizzati per gli spostamenti variavano dai calessi, alle carrozze patronali all’alternativa della diligenza postale. I viaggiatori si fermavano in locande, alberghi e ristoranti, i caffè si moltiplicano e nascono le prime strutture destinate ad ospitare ed intrattenere i turisti. La geografia del Grand Tour si modifica nel corso del settecento: il lungo circuito comprende città europee scelte in base a interessi culturali, partendo da Londra, passando per Parigi, scendendo in Italia, considerata paese dei monumenti, dell’archeologia, della campagna toscana, del carnevale veneziano e delle feste romane. Il percorso alla scoperta della penisola italiana doveva essere programmato in modo da trovarsi a Venezia durante il carnevale e a Roma durante la settimana Santa, ponendo così grande attenzione alle feste mondane. Il giro tra le città italiane varia in base ai gusti dei tourists e a secondo della nazionalità: i tedeschi e in generale tutti i nordici, andavano spesso alla ricerca del sole e del sud Italia, mentre gli inglesi mostravano una vera predilezione per Venezia e Firenze.

Un aspetto particolare riguarda Venezia, di solito ultima tappa del Grand Tour. I viaggiatori oltre a essere interessati alle feste in maschera che caratterizzavano la vita cittadina e alla presenza di divertimenti di ogni genere, erano interessati soprattutto al suo sistema politico particolarmente stabile e preso come modello. I percorsi si arricchiscono e gli itinerari si sovrappongono, vengono inserire nel tour le città di Napoli e Torino e i piccoli centri assumono un certo peso in particolare in Toscana le città di Siena, Pisa e Lucca. E’ Roma la città dove confluiscono i giovani aristocratici di tutta Europa, la città è un vero e proprio museo a cielo aperto; nel 1734 si inaugurano i Musei Capitolini, vengono acquistate numerose opere per i Musei Vaticani e riapre la galleria delle Statue Antiche nel 1771.

Il tradizionale percorso del Grand Tour inizia pian piano ad invertire i suoi punti caldi non più Venezia-Firenze, ma l’asse Roma-Napoli è l’itinerario privilegiato nella seconda metà del settecento.



Nicoletta Denaro

"Datemi tutti gli scritti vostri o di altri che avete [...] Mi disse che dovevo avere dei manoscritti rilegati e che dovevo consegnarglieli."
La diffusione della stampa periodica e la censura

LA DIFFUSIONE DELLA STAMPA PERIODICA E LA CENSURA

Nel corso del settecento l’analfabetismo diminuisce sempre di più e nascono cosi’ i periodici, grazie ai quali è possibile rendere l’informazione accessibile a una vasta porzione di pubblico. Si cominciano a stampare Gazzette, le quali riportano le notizie “ufficiali” ovvero quelle approvate dai censori, gli eventi riguardanti le Corti, le cerimonie religiose, i fatti più appariscenti tra cui: guerre, calamità naturali ed eventi straordinari. Le prime gazzette furono stampate a Bologna con i fratelli Sassi e a Parma con Giuseppe Rosati. Nacquero così le Gazzette ufficiali dei diversi Stati d'Italia. Successivamente il termine Gazzetta venne sostituito dal termine Giornale con pubblicazione periodica. Le caratteristiche del giornale erano di tipo letterario o scientifico, che si rivolgevano a un pubblico specialistico molto colto di accademici ed eruditi, i quali godevano di una maggiore libertà, a condizione di rimanere nel loro ambito. Le aree trainanti del giornalismo italiano furono la repubblica veneta che ebbe maggior importanza in campo legislativo e la Lombardia. Venezia, durante quasi tutto il XVIII secolo, fu il centro più attivo del giornalismo italiano. La Serenissima raggiunse un primato in tutti i tipi di periodici: dal letterario allo scientifico, dal foglio d'informazione a quello educativo-morale. Nel 1756 l'abate veneziano P. Chiari decise di fondare un giornale quotidiano, il “Diario Veneto” che fu il primo quotidiano stampato a Venezia. Si susseguirono diversi giornali tra cui: il bisettimanale “Giornale dé letterati d’Italia”, nel quale vi erano contenuti argomenti eruditi, che abbracciavano diversi temi tra i quali storia, teologia, scienze e diritto. La “Frusta letteraria” quindicinale che ottenne un grande successo, soprattutto per le spietate polemiche e i toni accesi con cui il fondatore Giuseppe Barretti esprimeva le sue opinioni, nei confronti dei letterati, suoi contemporanei o del passato. Dal titolo stesso del quindicinale egli frusta metaforicamente gli scrittori da lui considerati pessimi. In un secondo periodo la concezione del giornalismo periodico abbandona i temi tradizionali come letterati eruditi o religiosi, ma si rivolge soprattutto alla borghesia cittadina colta. Nasce così il “pubblico” un autorità costituita da commercianti, intellettuali e professionisti, ai quali i giornalisti chiamati ancora letterati possono sottoporre le proprie riflessioni. Il paese più evoluto in campo giornalistico è l’Inghilterra, dove si afferma un regime tollerante che non stabilisce uno stretto controllo sulla stampa. In Inghilterra vengono pubblicati quotidiani, riviste e periodici specialistici come il “Tatler” e fogli quotidiani come lo “Spectator” fondati da Joseph Addison nel 1711. Dopo circa vent’anni nel 1731 appare in Inghilterra The Gentleman’s Magazine. Da questa pubblicazione periodica deriva il termine “magazine” per indicare i giornali di informazione leggera. Nella seconda metà del settecento nascono in Inghilterra i grandi quotidiani come il “Times” pubblicato da John Walter. Mentre in Francia soltanto nel 1777 verrà pubblicato il primo quotidiano “journal de Paris”, che segnerà l’inizio di un grande sviluppo nel quale si prenderà coscienza che esso sarà il mezzo di divulgazione più importante della cultura. Purtroppo il numero di coloro che hanno accesso alla lettura dei giornali è molto ridotto, considerando il costo dei quotidiani. Le regole imposte alla stampa italiana erano simili a quelle esistenti nelle altre nazioni europee, con l'eccezione della Gran Bretagna. la censura impediva la trattazione di temi politici come articoli di critica al sovrano che venivano bloccati preventivamente. Inoltre veniva condannata la divulgazione di notizie che potessero inficiare le relazioni diplomatiche con gli Stati esteri.


Un importante invenzione eseguita da Nicolas Robert nel 1789 fu la “macchina continua”, con la quale si fabbricava un nastro continuo di carta per decuplicare la velocità di produzione. In Italia il più illustre tipografo italiano fu proprio Bodoni il primo a disegnare il carattere fedele al neoclassicismo, anche se i rapporti tendono ad uno slancio verticale che alla tipica rotondità. Nel 1796 Senefelder inventa il processo di stampa più utilizzato al mondo. Tale processo inizialmente prendeva il nome di “litografia” che solo dopo molti anni diventerà semplicemente offset. Senefelder inventò la litografia casualmente, un giorno per tener ferme le carte posò, su di esse una pietra calcarea. Nelle carte erano scritte delle parole con un inchiostro grosso a base di cera. Sollevando la pietra vide che le parole si erano trasferite sulla superficie inferiore della pietra. I tentativi di cancellare la scritta furono nulli poiché, la pietra calcarea trattata con grassi rifiuta l’acqua. Questo è il principio che userà la stampa affset. Anche in America e Russia comincia a prendere posto la stampa negli ultimi anni del settecento.



Fabiola Schilirò

" L' Histoire de ma fuite des prisons de la République de Venise qu'on appelle les Plombs [...] afferma, di aver scritto in francese e non in italiano, perché la lingua francese è la più diffusa nel mondo."
Il francese lingua della cultura e della diplomazia

IL FRANCESE: LINGUA DELLA CULTURA, DELLA DIPLOMAZIA, DELLE CORTI NEL '700

Il francese è il risultato delle contaminazioni linguistiche che il latino volgare ha subito nella Gallia romanizzata, a partire soprattutto dal V secolo. Gli studiosi tendono tuttavia a identificare nel vero atto di nascita della lingua francese il Giuramento di Strasburgo (842), documento di fondamentale importanza per la storia politica e linguistica dell'Europa.


Il XVII secolo (Grand Siècle) è considerato un periodo d'oro per la diffusione della lingua, della letteratura e della cultura francese in Europa. Nel 1635, il cardinale Richelieu fondò l'Académie française, l'ente che ancora oggi sorveglia l'uso della lingua e le sue variazioni, con lo scopo di rendere il francese la lingua della diplomazia internazionale, nonché l'idioma di riferimento per gli scambi culturali tra persone di differente nazionalità. Il trattato di Westfalia (1648), con cui si conclude la sanguinosa Guerra dei Trent'anni, fu redatto in francese, e segnò l'inizio di un'egemonia politica e culturale della Francia destinata a durare fino al 1815. Durante l'età dell'Illuminismo, il francese continuò ad affermarsi come idioma della diplomazia e della cultura. La pubblicazione dell'Encyclopédie contribuì inoltre a rafforzare la sua posizione di lingua franca per la divulgazione del sapere tecnico e scientifico.

Fu solo con la Rivoluzione che il francese divenne una lingua autenticamente nazionale e popolare. Se fino ad allora, infatti, la maggior parte della popolazione aveva continuato ad esprimersi utilizzando i vari dialetti locali, il Governo repubblicano emanò una serie di decreti atti a trasformare quello che era stato per secoli un idioma di corte nella lingua della Grande Nation. L'istruzione pubblica e gratuita per tutti permise di rafforzare la presenza del francese sul territorio. Nel corso del XIX secolo, con il perfezionamento del sistema scolastico nazionale e la progressiva diffusione della stampa quotidiana, il francese si affermò definitivamente come lingua parlata presso la totalità del territorio nazionale.

Ricollegandoci alla nascita dell'Académie française, possiamo parlare contemporaneamente della presenza di questa lingua nelle corti ed in altri luoghi illustri durante il periodo adiacente all'illuminismo, ovvero al '700, infatti l'Académie tenne i suoi incontri inizialmente presso i suoi stessi membri, presso il cancelliere Pierre Séguier a partire dal 1639, al Louvre a partire dal 1672, ed infine al Collège des Quatre-Nations, diventato palazzo dell'Istituto di Francia, dal 1805 fino ai nostri giorni.

Ma nonostante tutti gli sforzi compiuti per rendere il francese una lingua internazionale, se non la più parlata in tutta l'Europa, e l'intervento di uomini di noto spessore sociale come Francesco I di Francia, che rese il francese l'unica lingua utilizzata per gli atti giuridici e legali, nel 1790, solamente una percentuale intorno al 50% della popolazione francese riusciva a parlare e comprendere il moderno francese (moyen français).

In realtà, questa percentuale comprendeva solamente una parte della nazione francese, mentre le altre potenze europee continuavano a cimentarsi con una pronuncia fluente della lingua poichè quest'ultima, se utilizzata in modo corretto, identificava una modesta cultura personale e inoltre era la lingua ufficiale con cui venivano redatti numerosi trattati.

Lingua di numerose corti europee usata per lunghi periodi dall'aristocrazia e dagli intellettuali: in Italia la corte di Torino parlava francese, ma il fenomeno si presentava in modo ben più grandioso ad esempio in Germania, Russia, Polonia. Infatti il francese è presente in modo massiccio in tutto il lessico intellettuale delle lingue europee (nel dominio politico, amministrativo, tecnico ecc.) ciò è dovuto prima al ruolo di guida esercitato dalla filosofia francese del Settecento, poi al modello amministrativo fornito dalla Francia. Hanno risentito fortemente dell'influenza francese anche la moda, il teatro, l'organizzazione militare ecc. Il francese è stata la lingua della diplomazia e lo è in parte tuttora.

Claudio Costanzo



CULTURA

Dei delitti e delle pene di Cesare Beccarìa

Dei delitti e delle pene

di

Cesare Beccarìa


 
   
Il capolavoro di Cesare Beccarla (Milano 1738 - 1794), Dei delitti e delle pene, pubblicato nel 1764 e subito tradotto in tutte le lingue europee, ebbe un grande successo anche oltreoceano. Interi paragrafi del testo nei decenni successivi furono trasferiti nella legislazione degli stati, che accettavano i principi fondamentali del riformismo illuminista.
    Il libro nacque da un’esigenza morale generata appunto dal clima culturale del tempo, che voleva cancellare quanto d’irrazionale e “barbarico” sopravviveva nella legislazione, oltre che negli usi e costumi, come retaggio di quelli che ancora erano chiamati “secoli bui”.La prima novità, infatti, nel libro del Beccarìa sta nel rovesciamento della prospettiva da cui è vista la legittimità del potere politico: l’autorità non viene più da Dio, e il sovrano non è più considerato al di sopra della legge,   perché lo Stato è un patto sociale contratto da uomini liberi ed uguali, per il quale ogni singolo cittadino rinuncia ad una parte della sua libertà per acquisire la sicurezza personale e la libertà nel godimento dei propri diritti. Insomma, la sovranità è nella nazione. L’azione dello stato, quindi, ha come scopo fondamentalmente quello di assicurare la “felicità” dei cittadini, emanando leggi che regolino i rapporti sia dei cittadini fra di loro, sia dei cittadini con lo stato, avendo sempre presente il benessere generale. I cittadini dunque accettano la sottomissione alle leggi, che sono emanazione della loro stessa volontà, per non vivere in continuo conflitto fra di loro.              
    Quando un cittadino viola la legge,commette un reato, che è un’azione che reca danno alla collettività, per cui deve essere giudicato e punito. La legge secondo la quale si procede, però,deve essere chiara e perciò non soggetta a interpretazioni arbitrarie e ad abusi da parte del magistrato. Un altro requisito perché una legge possa essere giudicata giusta, deve essere la proporzione tra l’entità della colpa e quella della pena: quanto più un reato è stato lesivo, tanto più sarà severa la pena.
    Beccarìa distingue tre tipi di reati : quelli contro la società e chi la rappresenta(delitti di “lesa maestà”), che sono i più gravi e devono essere  puniti più severamente; quelli che attentano alla sicurezza della vita, dei
beni e dell’onore del cittadino, anch’ essi molto gravi; quelli che recano danno alla tranquillità pubblica e privata.
    Le pene, adeguate e proporzionate, devono avere lo scopo primario d’essere un deterrente, che distolga gli altri  dal compiere un reato, o devono impedire che un reato sia reiterato. Per raggiungere questi scopi non è tanto efficace la mole della pena quanto la sua certezza. Ad esempio, non distoglie dal delitto la minaccia della pena di morte, se si hanno molte probabilità di farla franca,quanto la certezza di una lunga pena detentiva. Inoltre la pena deve essere pronta, la detenzione preventiva breve e finalizzata soltanto a scongiurare il pericolo di fuga o ad impedire che le prove del delitto siano occultate.
    Riguardo all’ accertamento della colpa, Beccarìa si scaglia contro l’uso della tortura, allora abbondantemente praticata in tutti gli stati, che considera oltre che barbarica e inumana anche inutile, perché un innocente per sottrarsi ai tormenti della tortura può essere indotto a confessare colpe non commesse, o, al contrario, un autore di misfatti resistente al dolore, può sottrarsi al giusto castigo. La colpa per Beccarìa va accertata con la ricerca delle prove.
    Uno dei temi maggiormente approfonditi dal Beccarìa, è quello della pena di morte la quale, come sopra accennato, non è un vero deterrente  che possa distogliere dal delitto, sicché può essere considerata “una guerra della nazione contro il cittadino”, in quanto basata sulla forza dello stato e non sulla necessità di rendere giustizia. Infatti, il pericolo di reiterazione del reato può essere scongiurato con la privazione della libertà, che è già di per sé una pena severa. Per Cesare Beccarìa la pena di morte può essere accettabile solo se un cittadino, pur privo della libertà, ha tale seguito da rappresentare un pericolo per la nazione, oppure se, in particolarissime occasioni, la sua morte rappresenta l’unico modo capace di distogliere altri dal commettere delitti.
 Dei delitti e delle pene fu pubblicato nel 1764, quando Beccarìa aveva appena ventisei anni, ed ebbe il grande successo di cui s’è detto. Dopo scrisse parecchie altre opere, sia di filosofia morale e politica – secondo la sua stessa definizione – sia d’economia, tutte importanti anche sul piano operativo, in quanto ricoprì importanti cariche nell’ amministrazione della Lombardia, che allora faceva parte dell’ impero asburgico. 
 

Valentina Zimone

"[...] e mi resi conto che si trattava di una scossa di terremoto [...] quella scossa era stata prodotta dal terremoto che in quei giorni distrusse Lisbona."
Il terremoto di Lisbona

Il terremoto di Lisbona



Il grande terremoto del 1755, conosciuto comunemente come terremoto di Lisbona, fu unmovimento tettonico che si registrò la mattina del 1º novembre 1755 con epicentro non distante da Lisbona, capitale del Portogallo.
Il sisma interessò complessivamente una superficie di 11 milionidi km2 e raggiunseun'intensità stimata tra gli 8,5 e i 8,7 della scala Richter.
 Nei luoghi in cui le scosse nonfurono avvertite, i suoi effetti si manifestarono sotto le acque. Colpì granparte dell'Europa, dell'Africa e dell'America, ma provocò imaggiori danni nella zona sud-occidentale del Vecchio Continente. L'evento ebbeprofonde ripercussioni sulla società portoghese, tanto che le ambizionicoloniali del Portogallo nel XVIII secolo furono totalmente distrutte. Fu demolita più di metàdella Lisbona di allora.
La città di Lisbona, prima di questo cataclisma aveva 300.000abitanti.
Di questo cataclisma, il geologo scozzese Charles Lyell (1797-1875) fece un'accuratadescrizione:
« Mai, nei tempi moderni, nelle regioni vulcaniche dell'Europa del sud si era verificato un terremoto uguale allo spaventoso sisma che colpì Lisbona il 1º novembre del 1755.


Dapprima s'udì provenire dalle viscere della terra un rombo come di tuono, subito dopo una violenta scossa abbatté gran parte della città. Durante sei spaventosi minuti, morirono 60.000 persone. Il mare prima si ritirò, lasciando il molo e la riva a secco, con tutte le navi e le barche che vi erano ormeggiate, quindi tornò rombando, sollevandosi di quindici metri oltre il suo solito livello.
I monti Rabida, Estrella, Julio, Marao e Cintra tremarono selvaggiamente, come suol dirsi, fino alle fondamenta; alcuni subirono delle fratture sulla cima, in altri si formarono paurosi crepacci. Sulle vallate sottostanti caddero enormi massi. Alcuni affermano che da questi monti, fra i più importanti del Portogallo, uscì del fumo e che fu visto il balenio delle fiamme, che si suppone fosse d'origine elettrica; si dice anche che fumarono, ma alte nuvole di polvere possono aver dato quest'illusione.
L'estensione di questo terremoto fu la caratteristica più saliente. Il sommovimento colpì maggiormente Spagna,Portogallo e Africa del Nord, ma tremò quasi tutta l'Europa, e, in quel giorno, tremarono anche le Antille. Un porto chiamato Setubal, a 30 km da Lisbona, s'inabissò. Ad Algeri (Algeria) e a Fez, in Marocco, la scossa fu così violenta, che un paese di ottomila abitanti, situato ad otto leghe[1] da Marrakech, fu inghiottito dalla terra con tutto il suo bestiame; poi il suolo si richiuse sugli sventurati. Il sisma si sentì anche in mare.
Sul ponte di una nave, in viaggio ad est di Lisbona, fu avvertita una vibrazione molto simile alla scossa avvertita a terra. Di fronte a Sanlúcar de Barrameda il capitano della nave "Nancy" sentì che il natante era scosso così violentemente, che pensò d'avere urtato degli scogli e d'essersi incagliato, ma dopo aver calato la sonda scoprì di trovarsi in acque profonde.
Il capitano Clarke, della "Denia", mentre navigava a 36° 24' di latitudine nord, tra le nove e le dieci del mattino, sentì che la nave era scossa e trattenuta come se si fosse incagliata. Un'altra nave a 48 miglia ad est di S. Vicente subì un contraccolpo dal basso così violento che gli uomini che si trovavano sovraccoperta furono lanciati verso l'alto di almeno mezzo metro. Alle Antille e alle Barbados, come anche in Svezia, Norvegia, Germania, Paesi Bassi, Svizzera, Italia eCorsica, si avvertirono dei tremori e leggere oscillazioni del suolo. In Gran Bretagna l'agitazione di laghi, fiumi e sorgenti fu notevole. A Loch Lomond, in Scozia, l'acqua, senza la minima causa apparente, prima salì oltre gli argini, e poi scese sotto il normale livello, tale dislivello fu di circa 70 cm. Gli esperti sostennero che il movimento di questo sisma sia stato ondulatorio, e che si sia mosso alla velocità di 30 km al minuto.
Una grande onda si abbatté sulle coste spagnole, e si dice, che a Cadice, abbia raggiunto i 18 metri d'altezza. A Funchal e a Madera, si alzò di 5 metri oltre il limite della marea, benché in quel momento la stessa fosse in fase calante. L'onda anomala, oltre ad avere invaso le città, causando danni ingenti, inondò altri porti dell'isola. A Kinsale, inIrlanda, un'ondata s'abbatté sul porto e dopo aver capovolto alcune navi e imbarcazioni, inondò e travolse la piazza del mercato. »
 

La politica interna del Portogallodifronte al disastro
Per la vita politica interna del Portogallo, il terremoto fudevastante. Il Primo ministro delre Sebastião José deCarvalho e Melo che era un suofavorito, venne attaccato dall'aristocrazia, in particolare non perdonandoglile origini provinciali (il titolo di marchese gli venne assegnato nel 1770). Di contro il primo ministro detestava i nobiliaccusandoli di corruzione e immobilismo. Prima del sisma la lotta per il poteree i favori del re erano costanti, ma la competenza con cui il primo ministroaffrontò la catastrofe ebbe come effetto di tagliare i ponti tra la vecchiaaristocrazia e il sovrano. Questa nuova situazione fece crescere nella nobiltàrancori verso la casa reale e il re Giuseppe I del Portogallo, rancori che sfociarono nel 1758 in un tentativo di assassinio del re.
 
 
 

Le implicazioni filosofiche
Il terremoto di Lisbona, oltre che distruggere intere città, scosseanche le coscienze di un'intera generazione. Lisbona era la capitale di un paesefortemente cattolico, con alle spalle una storia di grandi sforzi dicristianizzazione ed evangelizzazione delle colonie. In aggiunta il sismacoincise con la festa di Ognissanti, e distrusse quasitutte le più importanti chiese. Per tutti i teologi ed i filosofi del XVIIIsecolo questa inaudita manifestazione della collera divina rimase un misteroassai difficile da spiegare, e fu di stimolo a riflessioni filosofiche di variotipo. Alcuni fecero risalire la causa del terremoto alla punizione divina peril massacro degli indios nelle riduzioni sudamericane dei gesuiti.
Il terremoto ebbe una forte influenza su molti pensatori europei dell'Illuminismo chedibatterono nell'ambito della cosiddetta Filosofia del disastro. Più di uno di essi menzionò o fece allusione aquesto avvenimento in loro scritti, in particolare Voltaire in Candido e nel Poemasul disastro di Lisbona. Il carattere apparentemente arbitrario con cuipersone furono risparmiate o uccise dal terremoto fu utilizzato da Voltaire perscreditare il concetto di miglior mondo possibile espresso dalfilosofo tedesco Gottfried Leibniz. Comescrisse Theodor Adorno nel 1966, «il terremoto di Lisbona guarì Voltaire dalla Teodicea di Leibniz».
 Una violenta controversia sorseanche tra Voltaire e Rousseau sul tema dell'ottimismo e del problema del male sullaTerra, tema che suscitò numerosidibattiti tra teologi, filosofi e saggisti del XVIII secolo. Nel XX secolo dopo i commentidi Adorno altri pensatori accostarono la catastrofe di Lisbona all'Olocausto, in quanto i dueavvenimenti esercitarono una profonda trasformazione della Cultura e della Filosofia del loro tempo.
Prima del tragico evento di Lisbona, vi erauna grande fede nell'ottimismo e nel progresso dell'umanità  che era stata ampiamente espresso da Leibniz nella suoi Saggidi teodicea del 1710.
Un'esaltazione dell'ottimismo cosmico siritrova in Alexander Pope con la sua opera del 1734 “Saggio sull'uomo” chediventa il punto di riferimento di coloro che sostengono essere quellopresente, il migliore dei mondi possibile. Questa convinzione comincia adessere incrinata, ancor prima del sisma di Lisbona del 1755, dalle stragicausate dalla Guerra di successione austriaca (1740-1748) e da quella dei Sette anni (1756-1763). Ovviamente però l’immane catastrofe diLisbona non distrugge solo la città, ma anche il modo di pensare e la riflessionefilosofica del Settecento.
 

L’inizio della geografia scientifica : E. Kant
Anche il giovane Kant, affascinato dall'avvenimento, ne raccolse tutte le informazioni disponibili, per poi formularne una teoria sui terremoti, espressa in tre scritti successivi. La sua teoria si basava su gigantesche caverne presenti nel sottosuolo terrestre riempite di gas caldi, teoria smantellata in seguito, da varie scoperte scientifiche. Essa resta pur sempre un primo tentativo di spiegare i terremoti attraverso un approccio scientifico e non come una punizione divina. Secondo Walter Benjamin il testo di Kant sul terremoto di Lisbona «rappresenta probabilmente l'inizio della geografia scientifica in Germania, e sicuramente quello della sismologia».

 
 

Ildibattito filosofico sulla natura: Madre o Matrigna?
 
Con il terremoto di Lisbona viene meno la convinzione dellasaldezza del suolo su cui noi uomini abitiamo, scardinando così la nostracertezza psicologica di avere un punto di riferimento stabile.
La natura, invece che madre, si presenta minacciosa eportatrice di morte. Per il filosofo e lo scienziato si presenta il problema diinterrogarsi su un fenomeno così difficile da spiegare.
La posizione degli intellettuali di fine Seicento e iniziSettecento può essere riassunta su due fronti:

Continuisti e i discontinuisti.
 
L’ipotesidei continuistiè basata sull’idea di cambiamenti lenti e costanti, legati all’elemento acqua.Tra i continuisti si distingue Leibniz, filosofo della continuità, teorico eperfezionatore dell’idea della “catena degli esseri”. Egli sostiene che ilnostro è il “migliore dei mondi possibili”. Voltaire attaccherà questa suaposizione attraverso il romanzo Candido.
L’ipotesidei discontinuisti è basata su cambiamenti repentini e rapidi, legati all’azione del fuoco,alle catastrofi come il Diluvio, che hanno un impatto distruttivo e consentonodi pensare la storia della terra in una scala temporale abbastanza breve. Tra idiscontinuisti emerge Burnet che propone la teoria che la terra non sia ilprodotto di una creazione diretta di Dio, ma il risultato di un processonaturale, di un caos originario, di un solido regolare incandescente. SecondoBurnet il paradiso terrestre sarebbe stato distrutto quando il vaporesotterraneo aumentò di volume, provocando la rottura della crosta terrestre e iconseguenti sconvolgimenti. L’idea di catastrofe comprende il senso del peccatoe la necessità della rigenerazione sia fisica dell’uomo, sia segno dellavolontà punitrice divina, sia risultato di eventi fisici spiegati secondo leggimeccaniche.
 
In tutte le posizioni emerge l’ideadell’equilibrio.  Viene propostala legge della compensazione: in un’economia generale della natura, daun bene, una forma di utilità, una ricostruzione.
Non è possibile accettare che la natura sia fondatasull’instabilità, per cui si propone che la natura si fondi su opposti, su unsistema di forze attrattive e repulsive: esseri viventi che muoiono compensanoquelli che prolificano, la distruzione compensa l’esuberanza: quello che ènegativo per il singolo diventa positivo per la specie: la morte di un singoloconsenta la vita di altri.
 
 
 
LE RIPERCUSSIONI  SOCIOLOGICHE
 
Per la prima volta, grazie agli organi di stampa, letestimonianze dei sopravvissuti e i particolari dell’evento si diffusero conuna consistente documentazione.
Il terremoto di Lisbona fu un evento catastrofico, percepitoe interpretato in modo diverso dai filosofi. Esso, infatti, suscitò e rinnovògli antichissimi interrogativi sul male, su Dio, sulla natura, sulla giustizia,sulle aspirazioni e sul destino dell’uomo. I pensatori espressero il loro pensieroin pubblicazioni di vario genere e spessore.
Ci fu una reazione intellettuale in tutta Europa e iniziò latendenza a parlare sempre meno di colpa e di peccato e sempre più di catastrofee di rischio. Con il contributo della geologia e delle nuove scienze si iniziòa cercare le cause dei disastri naturali e a sottolineare le responsabilitàdell’uomo.
Iltermine catastrofe, utilizzato in passato solo nell’ambito della drammaturgia,venne ad indicare una trasformazione (dal greco strépho:volgere lo sguardo). In particolare, si parlò della catastrofe come di unsimbolo poderoso della trasformazione, di un salto da uno stato ad un altro oda un cammino a un altro. Alcuni parlarono di catastrofe come riadattamento,con carattere di irreversibilità.
Johann Georg Zimmermann parla della positività di un sismache punisce gli abitanti di una città arricchitasi con l’oro delle coloniebrasiliane, ma che, nello stesso tempo, trasforma il monarca in un capo distato più comprensivo e pacifico.
Ci furono richiami al Dio punitore che prima o poi intervienecon la sua potenza e il suo castigo per le colpe.
Venne meno in alcuni pensatori la fede nell’ottimismo cheaveva pervaso gli scritti di Leibniz, specialmente iSaggidi teodicea (1710) e il saggio di PopeSaggiosull’uomo(1734).
 
 
 
IL PENSIERO DI VOLTAIRE SULLA CATASTROFE DILISBONA.
 
Il filosofo francese Voltaire (François Marie Arouet – nato aParigi nel 1694) aveva coltivato un certo ottimismo iniziale nella suacarriera. Col passare del tempo divenne scettico, ironico e poi pessimista, aseguito delle esperienze di vita e delle catastrofi successe. Tale pessimismofu espresso nei due scritti Poema sul disastro di Lisbonae Candido
.
All’epoca del terremoto Voltaire risiedeva vicino a Ginevra ein poco tempo, di getto, scrisse il poema su Lisbona che suscitò un enormesuccesso. Si ispirò al libro biblico Giobbe e si interrogò sul problema del male.
 
 
 
 
POEMASUL DISASTRO DI LISBONA.
 
Nel Poema sul disastro di Lisbona (1756), il riferimento alterremoto che colpì quella città diventa motivo di sarcastica irrisione ditroppi facili ottimismi: si tratta di una violenta requisitoria contro
la Provvidenza che permette l'esistenzadi mali gratuiti e orribili e contro le concezioni consolatorie dei filosofisostenitori del provvidenzialismo. Voltaire riscontra amaramente che il"tutto é bene" sembra ridicolo quando il male é sulla terra e sulmare. Voltaire non crede nella facile possibilità della felicitàumana.



CANDIDO.

Voltaire (1694-1778), scrivenel 1759 il suo Candido o l’Ottimismo, un’opera a metàstrada tra un romanzo di viaggi ed un racconto filosofico, che segue il Poemasul disastro di Lisbona, pubblicato nel 1756. Il romanzo vuole dare una nettacontrapposizione al pensiero di Gottfried Leibniz, filosofo tedescoassertore della teoria ultra ottimistica del “Tutto va nel migliore dei modinel migliore dei mondi possibile“.
 
IL PENSIERO DI ROUSSEAU SULLA CATASTROFE:
LETTERA A VOLTAIRE SUL DISASTRO DI LISBONA.
 
Rousseau risponde a Voltaire nel testo di Letteraa Voltaire sul disastro di Lisbona facendo proprio il pensiero diPope e di Leibniz: “Quell’ottimismo chetrovate tanto crudele mi consola, tuttavia, di quegli stesi dolori chedescrivete come insopportabili”.
Contesta a Voltaire il fatto che egli inasprisca la pena, lospinga a lamentarsi, gli tolga la speranza, lo porti alla disperazione, gliprospetti che non c’è altro fine alla propria esistenza che la sofferenza e lamorte.
Nel testo, il terremoto e la sofferenza passano in secondopiano, perché risalta il pensiero di una minaccia che è riconducibile allaresponsabilità umana. Se, infatti, le costruzioni fossero state a due piani enon tutte ammassate, se gli abitanti fossero fuggiti invece di ritornare atentare di riprendere le loro cose, il disastro non sarebbe stato cosìdevastante. Riflette il suo pensiero contrario agli agglomerati delle grandicittà e scrive: “Avreste voluto che ilterremoto si fosse verificato in una zona desertica, piuttosto che a Lisbona.Si può dubitare che non accadano sismi anche nei deserti? Soltanto che non sene parla perché non provocano alcun danno ai Signori delle città, gli uniciuomini di cui si tenga conto…”.
Rousseau afferma che la morte prematura non è sempre un maleassoluto, ma può avere qualche volta i risvolti di un bene relativo, perché chiè morto sotto il terremoto ha sofferto meno dei superstiti o degli agonizzantisotto le macerie, senza via di scampo.
Nonostante tutte le miserie per l’uomo è meglio essere chenon essere e cita Catone nel passo in cui dice che non si pente di aver vissutodal momento che l’ha fatto in modo da non dover credere d’essere nato pernulla.
Afferma che il singolo male di un individuo non è nullarispetto al bene di tutta la specie: “Il singolo male di un individuo contribuisceal bene generale: muoio, vengo mangiato dai vermi, ma i miei fratelli, i mieifigli vivranno come ho vissuto io”.
La catastrofe ripristina l’uguaglianza fra gli uomini, perchéi ricchi, perdendo tutto, non si differenziano più dai poveri, ai quali sonocostretti a tendere la mano. Quello che occorre è ciò che trasfigura le cose,come la catastrofe, che rende tutto migliore.
Per Rousseau è importante la speranza: “Io spero, e la speranza rende tutto più bello!”.
 
 
 



IL PENSIERO DI KANT SULLA CATASTROFE.
 
Kant dichiara che non intende riportare la cronaca dellesofferenze che il terremoto ha inflitto agli uomini, ma vuole parlare delle“cose della natura, delle circostanze naturali che hanno accompagnato ilterribile evento e le loro cause”, quindi dal punto di vista della scienza.
“Noi abitiamo tranquilli su un suolole cui fondamenta vengono di tanto in tanto scosse. Edifichiamo senza darcitroppo pensiero su volte le cui colonne talvolta vacillano minacciando dicrollare”.
Critica l’uso superstizioso della catastrofe come dispauracchio per produrre “cieca sottomissione”. Come Rousseau, Kant scrive chenei luoghi sismici si deve seguire la regola di costruzione di case a duepiani, per precauzione e seguendo un orientamento latitudinale.
Spiega come la crosta terrestre presenti della voltesotterranee in modo parallelo alle montagne. E’ più facile che si verifichino,pertanto, terremoti in zone montuose che pianeggianti. Le volte sotterranee siriempiono di acqua che, ribollendo, produce un aumento di pressione. In caso diterremoto fuoriesce con violenza. Kant aderisce all’ipotesi fuochista secondola quale la causa dei terremoti è di origine ignea (è un discontinuista).
Kant afferma che il Creatore ha posto le forze della naturain modo da sollecitare l’uomo a indagare circa il loro Autore.
Kant spiega che al di sotto dei nostri piedi c’è un mondo chenon conosciamo riesce a dimostrare l’utilità dei sismi e dei loro effettibenefici. Da essi scaturiscono acque termali, vene metallifere, produzione diterra fertile, calore.
Un effetto estremamente benefico della catastrofe è quello diricordare all’uomo i suoi limiti, il fatto che tutto diventa polvere e rovina.In tali circostanze il genere umano è unito dalla compassione. Le catastrofi“ci rammentano che i beni di questa terra non potranno in alcun modo soddisfarela nostra brama di felicità”. La vista di tante sventure conduce il principe acercare di concorrere alla pace perpetua. Se si vuole fare qualcosa perallontanare i flagelli che affliggono il genere umano, non bisogna guardare lacatastrofe naturale, ma porre fine alla guerra, che è il flagello piùdevastante.
Si coglie in questo scritto lo sforzo di conciliare l’ottimismodi Leibniz con la realtà. L’argomentazione di Leibniz è continuista. Kant,invece, è discontinuista: il mondo è la più perfetta fra le cose finite.
Afferma che il tutto è l’ottimo, e ogni cosa è buona in rapporto al tutto.

[1] La lega era un'unità di lunghezza, variante da luogo a luogo, edesprimeva originariamente, la distanza che una persona, o un cavallo, potevapercorrere al passo in un'ora di tempo (a seconda dei luoghi una grandezza variabiletra i 4 e i 6 chilometri).


Davide Di Bella

"I manoscritti contenevano invece fantasie di argomento magico, istruzioni per far profumi e scongiuri per convocare demoni di ogni genere."
Resistenza dell'occultismo, della magia, dell'esoterismo, delle superstizioni nel clima illuministico


L'OCCULTISMO DEL '700


All'inizio del diciottesimo secolo assistiamo ad un importante miglioramento della posizione sociale dei maghi. Le fiere metropolitane e di provincia continuarono a rimanere i loro spazi più importanti ma, al di fuori di queste, sempre meno si accontentavano di eseguire esibizioni casuali per le strade e, in risposta ad una certa richiesta della loro presenza, cominciarono a prendere in affitto degli spazi al coperto per esibirsi, stabilendo dei prezzi fissi per poter assistere ai loro spettacoli. Per queste tipo di esibizioni avevano la possibilità di utilizzare attrezzature più impegnative di quelle che venivano solitamente usate in strada e così ci fu un grande incremento di nuove invenzioni e nuovi effetti, senza però abbandonare del tutto i vecchi trucchi (come i bussolotti, che rimanevano una delle principali attrazione e dimostrazione di grande abilità). Questo cambiamento fu particolarmente evidente nei grandi centri e soprattutto a Londra dove, le numerose locande presenti nella 'Fleet Street' e nei sobborghi della città, offrivano un'appropriata sistemazione per le esibizioni magiche nei periodi lontani dalle fiere. Ed è sempre in queste città che i prestigiatori cominciarono ad essere notati dalla gente appartenente alle classi più nobili e ad avere la possibilità di eseguire esibizioni private per loro.

PRIMI“DIVI"

In questo nuovo scenario molti maghi ebbero modo di distinguersi e le loro esibizioni cominciarono persino ad apparire in alcuni periodici del tempo, come "The Spectator", che fu probabilmente il primo, nel 1712, a pubblicizzare la presenza di un prestigiatore in una famosa Taverna della 'Fleet Street'; è difficile identificare chi sia esattamente questo mago che viene definito nell'articolo "il famoso artista inglese", ma dalla descrizione dei suoi effetti (trasformazione di palle in uccelli vivi e produzione di uova da un sacchetto vuoto) potrebbe trattarsi di un certo David Cornwall o del grande Isaac Fawkes. In questa prima metà del secolo emergono altre due particolarissime figure, Johannes Grigg e Matthew Buchinger, che nonostante le loro forti menomazioni riuscirono a divenire due famosi artisti della magia. Grigg era un inglese senza gambe e con una sola mano ed eseguiva il gioco dei bussolotti in maniera eccellente spostando gli attrezzi con il braccio mozzato ed eseguendo le difficili manipolazioni con l'unica mano a disposizione. Invece Buchinger (di origine tedesca, detto "il piccolo uomo di Norimberga") non aveva né gambe né braccia ma riusciva comunque ad eseguire diversi effetti utilizzando attrezzi appositamente costruiti per essere adoperati con quel che gli restava dei suoi arti superiori; la sua abilità, soprattutto nella presentazione dei suoi effetti, gli diede la possibilità di raggiungere un certo successo e di esibirsi sia nelle più famose locande del tempo, sia in importanti aristocratici salotti. Ma quello che in questo periodo raggiunse la maggiore popolarità fu senza dubbio Isaak Fawkes (o Foux) che oltre ad esibirsi in diverse locande aveva un proprio baraccone fisso, all'interno della fiera di S. Bartolomeo e di quella di Southwark (in assoluto le due più importanti fiere annuali inglesi) dove eseguiva i suoi numeri di magia. All'epoca non c'erano manifestazioni più ricche di gente e divertimenti delle fiere annuali: erano carnevale, circo, spettacolo e mercato insieme, e come sempre, ovunque si radunasse un pubblico c'erano anche ciarlatani e veri maghi. Tra venditori di pozioni pseudo magiche e medicine miracolose, tra i vari mangiatori di fuoco, ingoiatori di spade, acrobati, giocolieri e contorsionisti, il mago rappresentava una delle attrazioni principali. Fawkes poi fu un caso ancor più speciale e con la sua grande abilità prestigiatoria e buona capacità di pubblicizzarsi divenne il più pagato mago di quel periodo. Il suo repertorio si basava su effetti eseguiti con carte, monete, uccellini e altri piccoli animali, ma il numero che lo rese famoso fu senz'altro il suo "Egg Bag Trick" o "Hen-Bag Trick" (tutt'oggi eseguito) in cui il mago mostrava un sacchetto vuoto rigirandolo più volte per poi estrarre da questo un'enorme quantità di piccole uova e monete d'oro. Anche il "Journal" (un giornale dell'epoca) parlò di un'esibizione di Fawkes avvenuta in una famosa taverna inglese. A riprova della sua enorme fama, quando morì lasciò una ricca eredità.

(Fawkes nel suo leggendario numero 'Egg Bag Trick' (primissimi anni del XVIII secolo)

MACCHINE E AUTOMI, TRA MAGIA E SCIENZA L'interesse illuminista per la scienza riporta alla ribalta nel repertorio magico la presenza degli automi e delle macchine in genere. Grande parte dell'intrattenimento offerto dai maghi del diciottesimo secolo consisteva infatti nell'esibizione di meraviglie meccaniche o semi scientifiche, o imitazioni più o meno fraudolente di queste. L'ingegnere e idraulico Mr. Winstanley, per esempio, a cavallo tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo, fu il primo ad erigere un teatro nei pressi di Hyde Park (che venne ribattezzato il "Whater Theatre") dove esibiva i suoi "magici" apparati idraulici tra i quali il famoso "The Wonderful Barrel" ("Il barile meraviglioso")capace di far uscire dal suo rubinetto un'enorme quantità di liquidi differenti: olio, acqua, vino, birra, latte ed altro, sia caldi che freddi. Il suo effetto era basato sull'invenzione creata dall'ingegnere francese Jacques Besson alla fine del '500, che era a sua volta un'elaborazione di un'antica idea di Erone di Alessandria. Ma tra tutti i ritrovati meccanici, quelli ad esercitare maggior fascino furono senz'altro gli automi, dispositivi che riproducessero i comportamenti e i movimenti dell'uomo e degli animali. Quest'interesse ha origini molto lontane ed è rimasto vivo durante i secoli forse proprio per il carattere potentemente suggestivo, sconfinante nel magico che l'automa ha sempre avuto e che ha fatto sì che entrasse anche nel repertorio dei prestigiatori, i quali esibirono spesso falsi automi che, da una parte sfruttavano leggi della meccanica e dall'altra segreti da illusionista in grado di renderli veramente incredibili. Durante il diciottesimo secolo poi questo tipo di prestigiatori ebbe maggior consenso perché (come scrive Laura Forti nella sua interessante premessa al libro "Divertimenti Fisici" di Pinetti, riferendosi proprio a questo grande mago), riuscivano a esercitare un forte potere suggestivo, facendo leva sull'immaginario di un pubblico carico di pretese scientifiche che, nonostante lo scetticismo, tremava ancora al pensiero del sovrannaturale e subiva il fascino delle leggende che narrano di bambole semoventi e teste parlanti. Fin dalla nascita l'automa ha una doppia natura, tecnica e magica, e questa ambivalenza si riflette anche sulla fama dei suoi creatori. Già nelle antiche tribù, durante alcuni riti, gli stregoni avevano metodi per dar "vita" e far danzare una sorta di bambole o pupazzi tramite fili segretamente nascosti alla gente della tribù che vedeva in questi falsi automi la dimostrazione del favore degli spiriti. Nella mitologia greca abbiamo invece Dedalo, costruttore del crudele labirinto che fa da prigione al Minotauro e creatore di altri figure dalle articolazioni mobili prodotto di falegnameria. Ma il primo a creare automi tramite movimenti meccanici fu senz'altro Archita di Taranto, matematico e filosofo della scuola pitagorica della prima metà del quarto secolo A. C.. Fu il fondatore della meccanica e, a causa delle sue creazioni (tra le quali un cervo e una colomba in grado di volare e prototipo della mongolfiera), veniva anche attribuita una forza quasi magica in grado di produrre meraviglie sottomettendo la natura. C'è poi la misteriosa figura del matematico e fisico Erone di Alessandria, che intorno al primo secolo A. C. (anche se i dubbi sul periodo in cui visse hanno prodotto ipotesi che oscillano tra il terzo secolo A. C. e il terzo D. C.) creò numerosi giochi meccanici destinati a suscitare grande meraviglia. Le sue teorie furono riprese con molto interesse dagli studiosi e dagli artisti rinascimentali che, dopo il periodo medioevale (durante il quale le arti meccaniche erano svilite e ritenute impure dalla cultura ufficiale), riportarono la meccanica ad un interesse popolare. La gente (soprattutto a Parigi) mostrò sempre più ammirazione per le nuove creazioni come per le statue di J. Vaucanson (1735 ca.) in grado di suonare il flauto e il tamburo, o per gli automi (autentici o presunti) che i prestigiatori ambulanti mostravano spostandosi per le città. E così (sempre citando Laura Forti) nel diciottesimo secolo, forte delle teorie cartesiane, si celebra il trionfo della tecnica e il mito della macchina, rinascono ombre mai dissipate e archetipi potenti; perché da sempre, dietro il sogno di ridare la vita alla materia inerte, si cela una pericolosa volontà di dominio, appannaggio di maghi e negromanti. Anche durante l'Ottocento l'uso degli automi all'interno di uno spettacolo magico verrà sfruttato da molti prestigiatori; uno su tutti il leggendario Robert-Houdin.

IL GIOCATORE DI SCACCHI Tra tutti gli automi o pseudo-automi della storia, il più celebre fu probabilmente "il giocatore di scacchi" (The Chess Player), creato nel 1769 dal Barone Von Kempelen (di origine ungarica o austriaca) e presentato alla corte di Maria Teresa. Egli sembrava aver realizzato il sogno di tutti gli inventori, creando la prima macchina in grado di pensare. La sua illusione consisteva in una sorta di manichino negli abiti di un uomo turco seduto ad una scrivania/cassapanca sulla quale si trovava una grande scacchiera. Prima veniva spogliato e smontato il manichino, per dimostrare la sua semplice struttura in legno; dopodiché Von Kempelen apriva gli sportelli della cassapanca e illuminava il suo interno con una candela dimostrando che non vi si trovavano altro che pochi meccanismi atti al funzionamento della macchina; passava così al caricamento dei meccanismi e il manichino turco, non solo cominciava a muoversi ma, con l'uso della sua mano sinistra, sembrava in grado di battere a scacchi anche il più abile avversario. Mostrava anche una certa personalità dando segni di spazientimento quando l'avversario ritardava la sua mossa o buttando all'aria con un gesto plateale tutte le pedine degli scacchi quando era vittima di una scorrettezza. Questo fenomeno destò l'interesse e la curiosità di sovrani e intellettuali e fece sussurrare i salotti di tutta Europa. Molti principi e re vollero confrontarsi con questo imbattibile giocatore e sono rimaste celebri le sue presunte vittorie su Napoleone, Benjamin Franklin e Caterina di Russia. Divenne un vero e proprio caso e diede vita a una ricchissima letteratura; tentativi di spiegazione sono contenuti in articoli e lettere di molti intellettuali per oltre un secolo. Il primo a tentare di svelare il mistero che si celava dietro il giocatore di scacchi fu il giurista, matematico e diplomatico francese Henri Decremps, ma la sua soluzione si allontanava molto da quella effettiva. Un'altra versione piuttosto assurda è quella data da Robert-Houdin, convinto che dietro l'automa si nascondesse un soldato polacco che aveva perso le gambe a causa di una cannonata. Altre ipotesi parlavano di un assistente che manovrava la macchina tramite un meccanismo a distanza o ancora dell'uso di elettromagneti. Una versione molto vicina alla soluzione fu data invece da Freiher Racknitz che con una accurata descrizione, accompagnata da una sequenza di illustrazioni, mostrava come un complice potesse con molta astuzia nascondersi in quel poco spazio che si trovava tra i meccanismi della macchina mentre veniva mostrata vuota e da lì manovrare il manichino. Questa spiegazione non arrestò comunque il successo del giocatore di scacchi, che nel 1804 (dopo la morte di Von Kempelen)passò nelle mani del prestigiatore austriaco Maelzel che continuò a portarlo in giro per l'Europa e l'America suscitando sempre grande interesse. Anche Edgar Allan Poe divenne ossessionato dall'idea di scoprirne il segreto e dedicò a questo "personaggio" il libro "Maelzel's Chess-Player" (Il giocatore di scacchi di Maelzel).

Il giocatore di scacchi rimane comunque un capolavoro della meccanica del tempo: anche se comandato da un compare nascosto era, infatti in grado si eseguire movimenti molto precisi e complessi.



PINETTI

Giuseppe Giacomo Pinetti (vedi foto a inizio pagina) fu senza dubbio il più popolare dei maghi della seconda metà del '700 così come lo fu Fawkes per la prima metà, con la differenza che, mentre Fawkes era conosciuto esclusivamente in Inghilterra, Pinetti ebbe grande successo in tutta Europa. Nato ad Orbetello (Grosseto) nel 1750, intorno all'età di 20 anni iniziò a lavorare nelle piazze di Roma mischiandosi a ciarlatani e falsi alchimisti, vendendo i suoi balsami e le sue pozioni miracolose (forse ispirato da Giuseppe Balsamo conte di Cagliostro, sedicente nobile, intento a convincere la capitale dei suoi poteri da alchimista). Il suo carisma e la sua capacità di persuasione emersero immediatamente e la sua ambizione lo portò presto a girare per le più importanti capitali d'Europa: Berlino, Londra e soprattutto Parigi dove raggiunse l'apice del suo successo. Pinetti aveva inoltre una singolare capacità di autopromuoversi e si costruì un personaggio a volte difficile da decifrare, adornandosi di presunte onorificenze, titoli e cariche nobiliari, definendosi scienziato e grande conoscitore della fisica e soprannominandosi "profésseur de mathematiques". Molti degli effetti che presentava nei suoi spettacoli venivano da lui mostrati non come semplici trucchi, ma come risultato di lunghe ricerche nei campi della fisica e della chimica, e il suo grande successo fu dovuto probabilmente proprio alla sua geniale intuizione di improvvisarsi sapiente in un epoca votata al progresso. Ma non solo, Pinetti dava alle sue esibizioni un forte accento spettacolare: vestiva con eleganza e si muoveva con grande carisma, faceva uso di un'elegante scenografia adornata da candele, lampadari e oggetti di lusso, il teatro era strategicamente illuminato per dare un effetto suggestivo, così come la musica, proveniente da meccanici organetti e da lui stesso suonata col violino. Pinetti metteva inoltre una particolare ironia nella sua presentazione, facendo anche il verso al mondo della scienza e creando un certo equivoco sulla veridicità delle sue dimostrazioni, permettendo così anche agli spettatori più intellettuali di divertirsi senza tradire i propri ideali. Così il suo spettacolo, in bilico tra magia, dimostrazione scientifica e spettacolarità, trovò il favore, sia dei popolani parigini, ancora avvolti in una dimensione magico-superstiziosa che la cultura ufficiale voleva dimenticare, sia nei cortigiani invece avidi di curiosità alla moda che soddisfacessero la loro brama di divertimento. Ed è così che i teatri dove si esibiva facevano il tutto esaurito e gli spettatori erano disposti a pagare anche somme considerevoli per assistere ad un suo spettacolo. Gli effetti da lui mostrati andavano da quelli palesemente ciarlataneschi, retaggio della sua esperienza in strada (come la dimostrazione delle sue magiche pozioni), a quelli più raffinati tra i quali per esempio "il nodo ai pollici" (in cui nonostante i pollici legati tra loro, cerchi e altri oggetti sembrano poter passare all'interno delle braccia del prestigiatore); una particolare rivelazione di una carta (in cui sembrava in grado di attaccare al muro una carta scelta e persa nel mazzo sparando un colpo di pistola alle carte lanciate in aria); e quello che può essere considerato il primo esempio di lettura del pensiero a due e che fu poi ripreso da Robert-Houdin, così come molto altro della sua magia. Nel repertorio di Pinetti, come in quello di moltissimi maghi del '700, non potevano mancare ovviamente gli automi, protagonisti e principale attrazione dei suoi spettacoli. Anche il suo approccio nel mostrare queste meraviglie si rivelò estremamente originale rispetto al passato; infatti Pinetti non si limitava a presentare l'automa per suscitare l'ammirazione degli spettatori, ma interagiva con questo che diventava una sorta di spalla comica del mago e interpretava un vero e proprio personaggio. La massima rappresentazione di questa idea era data dal pezzo più originale della sua collezione, "il turco sapiente" o "gran sultano", un automa dallo spiccato senso umoristico in grado di sdrammatizzare così l'utopia della macchina umanizzando quest'ultima. Ma i suoi modi gli procurarono durante la sua carriera anche delle inimicizie, tra cui la più forte fu senz'altro quella di Henri Decremps che intraprese una sorta di battaglia personale col mago cercando di distruggerne la personalità e la credibilità. La pubblicazione di Decremps "Magie blanche devoilée" (Magia bianca svelata), che aveva l'intento di diffamare il mago e svelare i suoi trucchi (facendo più che altro congetture senza un vero valore tecnico), diede vita ad una serie di "botta e risposta" tra i due (Decremps attaccando il mago con la pubblicazione di altri 4 libri e Pinetti rispondendo con un libro e tramite i suoi spettacoli provocatori). Se da una parte questo aumentò la popolarità di Pinetti, dall'altra lo costrinse a dei cambiamenti e venne svilito di molto il suo lavoro finché, sfinito, decise di trasferirsi prima a Londra e poi ritirarsi definitivamente in Russia (una delle prime tappe del suo girovagare), dove rimase fino alla morte. È evidente che il singolare personaggio di Pinetti e il suo approccio alla magia, che potremmo definire sperimentale, segnò un importante cambiamento dello spettacolo magico, mettendo le basi al passaggio della magia da semplice forma di intrattenimento a vero e proprio spettacolo teatrale e molte delle sue idee (anche se cambiate nella forma) verranno riprese dai più grandi maghi dell'Ottocento.

ROBERTSON (FANTASMAGORIA) La conoscenza dei principi di ottica è stata sempre molto utile alla magia, e fu alla fine del Settecento che, sempre sulla scia dello sfruttamento delle nuove conoscenze scientifiche a scopo di intrattenimento, il belga Etienne-Gaspard Robert (Robertson) fece il primo valido tentativo di utilizzare questi principi per spettacolari e magiche rappresentazioni. Robertson era in grado di creare numerosi effetti grazie all'uso nascosto della "lanterna magica" adattata alle sue esigenze. Inventata un secolo prima, la lanterna magica (antenata del moderno proiettore di diapositive) era uno strumento alimentato da una lampada a petrolio in grado di proiettare diapositive in vetro dipinte a mano, offrendo un semplice intrattenimento da salotto. Tutto questo prima che Robertson creasse uno spettacolo chiamato “Fantasmagoria”. Introdotto in Europa intorno al 1790, fu presentato a Vienna e a Berlino per poi stabilirsi nella sua versione più evoluta in un ex convento di cappuccini al centro di Parigi intorno al 1794. Tramite la creazione di ingegnosi marchingegni, attraverso l'uso della lanterna magica applicata alla proiezione di fondo, proiettando diapositive a più strati per dare un'impressione di movimento alle immagini (che scomparivano, si dissolvevano e ruotavano), dando a queste un senso di tridimensionalità tramite la loro proiezione sul fumo di un braciere o su uno schermo di mussola, Robertson dava vita ad un vero spettacolo multimediale, dove gli spettatori potevano assistere eccitati e spaventati all'apparizione di incredibili fantasmi, inquietanti figure mostruose, personaggi dell'epoca, favole e leggende.

Lanterna magica (modello tedesco del 1880)


Fantasmagoria (Robertson, Parigi 1797)


LA MAGIA E LE SUE PRATICHE “Incantesimo e magia: parole fra le più comuni, fra le più frequentemente usate, per esprimere concetti che gli uomini di tutti i tempi hanno cercato di tradurre in figure, in gesti, in suoni, in parole. Termini usati nel senso più vasto e più vario per indicare idee e pratiche, impressioni e riti, fatti invocati e desiderati o temuti e aborriti, avvenimenti meravigliosi e strani e inesplicabili, che vanno dai riti simbolici degli antichi alla stregoneria delle pitonesse da strapazzo, dall’azione esercitata sull’animo nostro da una sinfonia musicale alle virtù terapeutiche dei raggi ultravioletti, dal fascino esercitato da una pura bellezza femminile ai trucchi del prestigiatore. Forse perché nulla avviene nella vita della natura e nella storia dell’umanità dove non abbia qualche parte l’incantesimo, ove non penetri una sottile magia.” Così scrive Arturo Castiglioni nel suo saggio “Incantesimo e magia” che verte sull'analisi del misticismo, della superstizione e della medicina antica. Analizziamo il XXIII Capitolo, in cui si parla della magia e delle sue pratiche nel ‘700. Il Seicento è dominato dal movimento politico e intellettuale, che parte dalla Controriforma e dal metodo sperimentale; il Settecento ne rappresenta la logica evoluzione. È un'epoca di reazione politica. Viene attaccato il dogmatismo scolastico e fiorisce un idealismo rivoluzionario che tende a liberare le coscienze. Le concezioni romantiche e mistiche che si diffondono a fine secolo in Germania porteranno alla formazione della dottrina del magnetismo animale o mesmeriano, da Franz Anton Mesmer. La terapia magnetica è una terapia ad azione suggestiva; rientrano in questa categoria i metodi di cura omeopatici ideati da Samuel Hahnemann, il quale affermò che le malattie possono essere curate provocando, mediante sostanze medicamentose, fenomeni analoghi a quelli che ne provocano l'inizio. Così egli prescrisse impacchi caldi per medicare le ustioni o l'oppio per guarire la sonnolenza. Il maggiore rappresentante del misticismo del Settecento è Emanuel Swedenborg. La sua dottrina è esposta nella sua opera “De coelo et eius mirabilibus et de inferno ex auditis et visis” stampato a Londra nel 1758. Lo Swedenborg crede nell'esistenza degli spiriti e nel fatto che, dopo la morte le anime attraversino uno stato di transizione per essere preparate al trapasso. Questo intervallo di tempo varia secondo quante colpe devono essere espiate o quanti meriti devono essergli riconosciuti. Gli spiriti mantengono la forma umana e ci si può mettere in contatto con loro solo in uno stato tra il sonno e la veglia. Verso la fine del secolo occultismo e misticismo si diffonderanno largamente tanto da dare origine a delle società segrete come la Massoneria. Fra gli avventurieri del Settecento Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro è l'ultimo mago nel vero senso del termine: in lui non vi è nessuna attività critica, nessuna legge frena i suoi desideri, né alcuna morale ostruisce la sua volontà. Possedeva una cieca fede in se stesso e nel suo potere di saper convincere. È stato un grande cultore di tutte le arti magiche: dell'alchimia, infatti ne sono una prova i suoi numerosi tentativi di preparare la pietra filosofale. È stato un acclamatissimo guaritore e un abile evocatore dei morti: non solo dava voce a ombre e spiriti, ma anche alle "pupille", ragazze in uno stato di trance adagiate al di là di un lenzuolo, le quali dovevano rispondere alle sue domande. Cagliostro era un abile trascinatore ed aveva finito per rimanere intrappolato in credenze millenaristiche troppo più potenti di lui. Il romanticismo del Settecento diede facilmente la possibilità anche a degli impostori di farsi avanti promettendo di svelare misteri che neanche la scienza riusciva a sciogliere pienamente. Questa tendenza mistico-occultistica rappresentava un passo indietro rispetto alla tendenza sperimentale del Rinascimento. In ciò si vede confermato il fenomeno dell'oscillazione storica di cui aveva parlato Goethe, fra il polo positivo e il polo negativo, fra il razionale e l'irrazionale. La magia si riconfermava come desiderio di indipendenza dalle leggi umane e di ritorno al cosmo e all'estasi mistica.

In questa parte sono stati accennati diversi autori e artisti e i loro pensieri sulle tematiche magiche. Andiamo ad approfondirne qualcuno. Johann Wolfgang von Goethe è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo tedesco. Tra le sue opere dedicate alla magia troviamo “L’apprendista stregone”, una ballata composta nel 1797, ispirata a un episodio del Φιλοψευδής (Philopseudḗs , ovvero "l'amante del falso") di Luciano di Samosata. Dall'opera letteraria, il compositore francese Paul Dukas ricavò l'impianto del suo poema sinfonico “L'apprendista stregone”. Alla storia si sono ispirate diverse opere successive, la più famosa delle quali è un episodio del film d'animazione “Disney Fantasia” (1940) con protagonista Topolino. La ballata di Goethe racconta di uno stregone che si assenta dal suo studio, raccomandando al giovane apprendista di fare le pulizie. Quest'ultimo si serve di un incantesimo del maestro per dare vita a una scopa affinché compia il lavoro al posto suo. La scopa continua a rovesciare acqua sul pavimento, come le è stato ordinato, fino ad allagare le stanze: quando si rende conto di non conoscere la parola magica per porre fine all'incantesimo, l'apprendista spezza la scopa in due con l'accetta, col solo risultato di raddoppiarla, perché entrambi i tronconi della scopa continuano il lavoro. Solo il ritorno del maestro stregone rimedierà al disastro. La morale della ballata è chiara: meglio non cominciare qualcosa che non si sa come finire. L'espressione è diventata proverbiale anche in italiano. Nel lessico letterario e giornalistico, l'apprendista stregone è una persona irresponsabile che applica metodi o tecniche che non è in grado di padroneggiare, col rischio di provocare danni irreversibili per tutta la collettività. La figura dell'apprendista stregone si può inoltre considerare anticipatrice di quella dello scienziato pazzo, personaggio tipo della narrativa e del cinema popolare nel Novecento.

Inoltre è celebre la frase di Goethe: “La magia è credere in noi stessi. Se riusciamo a farlo, allora possiamo far accadere qualsiasi cosa.”

Giuseppe Giovanni Battista Vincenzo Pietro Antonio Matteo Balsamo, noto con il nome di Alessandro, Conte di Cagliostro o più semplicemente Cagliostro, è stato un avventuriero, esoterista e alchimista italiano. Definito da Giacomo Casanova «un genio fannullone che preferisce una vita di vagabondo a un'esistenza laboriosa», fu iniziato nel 1776 in Massoneria nella loggia "L'Espérance", appartenente al Rito della Stretta Osservanza, che si riuniva in una taverna di Soho. Teneva riunioni in cui faceva credere di appartenere a una società segreta, organizzata secondo cinque livelli di elevazione spirituale, di avere e di far avere visioni mediante l'idromanzia (metodo di divinazione basato sull'osservazione dell'acqua), di evocare spiriti, di essere un sapiente la cui conoscenza si trovava In verbis, in herbis, in lapidibus, nelle parole, nelle erbe e nelle pietre, il motto della sua setta. Semianalfabeta e improvvisatore, commise inevitabili errori di gusto, come quando dichiarò di essere in grado di soddisfare, con un sortilegio, qualunque desiderio sessuale o quando sostenne di essere figlio di un angelo. Si presentò anche come taumaturgo ed ebbe l'accortezza di non farsi pagare dai poveri - solo dai ricchi - e se non otteneva nessuna guarigione, si guadagnava simpatia e popolarità. Il massone, appassionato di alchimia, principe Adam Pininsky, lo ospitò illudendosi che Cagliostro fosse in grado di trasformare il piombo in oro: a questo scopo gli affiancò il confratello massone August Moszynsky negli esperimenti di laboratorio. Questi pubblicherà nel 1786 un libretto sull'esperienze alchemiche del Nostro, riferendo come Cagliostro ottenesse l'oro dal piombo semplicemente sostituendo il recipiente contenente il piombo con un altro eguale contenente l'oro. A questo prevedibile infortunio si aggiunse quello scoperto ai danni di una ragazza, da lui sessualmente molestata, con la quale si era altresì accordato per la riuscita di altrimenti improbabili evocazioni spiritiche. Inoltre, fu abile a fingersi medico: se le sue tisane a base di erbe, la cui ricetta si è conservata, si rivelavano semplici placebo, le guarigioni di gangrene ottenute bevendo liquori erano naturalmente fantasie propalate da lui stesso, che ottenevano tuttavia l'unico effetto che realmente gli premesse: presentarsi al pubblico di tutta l'Europa come l'unico uomo capace di risolvere - a pagamento - qualsiasi problema. Per finire, Cagliostro fondò la Massoneria di Rito Egizio e si elesse Gran Cofto. Sosteneva che scopo del Rito Egizio fosse la rigenerazione fisica e spirituale dell'uomo, il suo ritorno alla condizione precedente alla caduta provocata dal peccato originale, ottenuta, dal Gran Cofto e dai dodici Maestri che lo avrebbero assistito, con ottanta giorni di attività iniziatiche. Per i nuovi aderenti, naturalmente, i tempi per raggiungere la perfezione sarebbero stati molto più lunghi: solo al dodicesimo anno di appartenenza, sarebbero potuti diventare maestri e prendersi cura dei nuovi iniziati. Ma solo lui, il Gran Cofto, rimaneva depositario di un mysterium magnum il cui contenuto è rimasto effettivamente avvolto nel mistero.

L’esoterismo ha largamente influenzato anche Georg Wilhelm Friedrich Hegel, filosofo tedesco considerato il rappresentante più significativo dell'idealismo tedesco. Egli si avvicinò all’Ordine segreto dei Rosacroce; a tal proposito le caratteristiche che maggiormente avvicinano le opere del grande autore di Stoccarda all’Esoterismo rosacrociano sono molteplici ma possono essere considerate essenzialmente, o almeno inizialmente sei. In primo piano vi è la questione di un linguaggio volutamente esoterico e ricercato contrapposto a una Dottrina marcatamente “Essoterica” e quindi destinata al grande pubblico, propugnata dal suo rivale di sempre: il Filosofo realista Immanuel Kant. La terminologia del filosofo di Stoccarda si presenta infatti in molti casi come intenzionalmente oscura e ricercata nascondendo un doppio o addirittura molteplice registro volto a non rivelare affrettatamente significati troppo complessi per un consumo massivo e/o massificante. Di fatto chi si avvicini alla filosofia di Hegel è invitato a compiere una sorta di viaggio iniziatico attraverso quello sconfinato oceano che ha svelato la sua ampiezza solo in compendio nell’“Enciclopedia delle Scienze filosofiche” appunto. Ed è proprio la “Fenomenologia dello Spirito”, una delle sue maggiori opere, a presentarsi come un grande percorso d’iniziazione basato su un cammino che può condurre l’uomo dal terreno incerto di una scettica ignoranza alle alture serene di una cosciente scienza. In terzo luogo proprio le tappe raggiunte dalla coscienza umana si presentano al lettore e all’interprete come gradini di una scala, laddove ogni passo, anche quello più erroneo, risulta fondamentale ed essenziale per il conseguimento di un risultato, sempre inteso come sintesi imprescindibile dei passaggi precedenti che lo hanno prodotto. Ma in quarto piano questo modo di procedere, chiamato anche dialettica, ha tenuto conto del principio della “Complementarietà degli opposti”, tipico del pensiero rosacrociano riconoscente anch’esso il Vero nell’Intero. In quinto luogo la questione della coincidenza all’interno del percorso della coscienza dell’Inizio con la Fine riconduce al simbolo esoterico del Serpente che si morde la coda, tema ricorrente della tradizione gnostica molto presente negli ambienti esoterici tra la Rosa e la Croce. In sesto luogo è ormai noto da molti documenti storici che gli gnostici erano soliti scrivere racconti mitologici molto simili ai Vangeli cristiani ed anzi sembra addirittura che gli stessi vangeli del Canone cattolico siano stati tratti da originali Fonti gnostiche.

Anche in Wolfgang Amadeus Mozart, annoverato tra i più grandi geni della storia della musica, dotato di raro e precoce talento, troviamo delle tematiche sulla magia. Mozart entrò nella massoneria dopo il proprio trasferimento a Vienna, mentre la sua carriera di musicista era al culmine del successo. Venne iniziato come "apprendista" il 14 dicembre 1784, nella loggia "Zur Wohltätigkeit" ("Alla beneficenza"). Il compositore, in poco tempo, percorse tutto il cammino iniziatico della massoneria: il 7 gennaio del 1785 fu elevato al grado di "compagno" e forse il 13 gennaio (la data non è certa) divenne "maestro".Suo padre Leopold venne iniziato nella stessa loggia il 6 aprile 1785, il 16 aprile passò al grado di "compagno" e il 22 divenne "maestro". L'11 dicembre 1785 l'imperatore Giuseppe II fece emanare un decreto, il Freimaurerpatent, in virtù del quale le otto logge massoniche di Vienna furono accorpate in sole due, denominate rispettivamente "Alla nuova speranza incoronata" e "Alla verità" e assoggettate a uno stringente controllo da parte del governo; in seguito a questo provvedimento Mozart venne a far parte della loggia "Alla nuova speranza incoronata". Fra gli scopi dichiarati di tale decreto vi era quello di limitare l'influenza dell'ordine dei Rosacroce, di tendenza mistica ed esoterica; perciò i massoni di tendenza razionalista inizialmente accolsero con favore il Freimaurerpatent; tuttavia, in seguito apparve chiaro che l'assoggettamento della massoneria al controllo governativo aveva anche l'obiettivo di frenare l'attività dell'ala più illuminista e più anticlericale, che faceva capo all'ordine degli Illuminati, considerato pericoloso per l'ordine costituito. Difatti dopo il Freimaurerpatent l'ordine degli Illuminati cessò praticamente di esistere a Vienna, molti di loro (fra cui alcuni cari amici di Mozart) uscirono dalla massoneria e la stessa loggia "Alla verità" fu ufficialmente chiusa nel 1789. La loggia "Alla beneficenza",di cui faceva parte Mozart prima del Freimaurerpatent, era praticamente dominata dagli Illuminati, ed egli stesso ebbe stretti legami con appartenenti a tale ordine. Sembra che Mozart abbia avuto simpatie per gli Illuminati, anche se molto probabilmente non entrò mai a far parte del loro ordine. Mozart continuò comunque a far parte della massoneria anche dopo che ne furono usciti gli Illuminati, sebbene, a quanto pare, la sua partecipazione alle attività della loggia sia diminuita fra il gennaio 1786 e il gennaio 1791. L'appartenenza massonica di Mozart non fu solo per adesione formale, ma trasse fondamento in profondi convincimenti esoterici e spirituali, che egli tradusse in musica, nelle opere che più si riallacciano ai simboli e agli ideali massonici: fra questi, resta impareggiabile la simbologia del “Flauto magico”. Oltre al filone razionalista della cultura massonica del '700, l'opera documenta un filone caratterizzato dal misticismo e dall'attrazione per i misteriosi scenari dell'Oriente. Mozart vi affronta tematiche tipiche della cultura massonica, e a lui care: morte e rinascita, rapporto tra terreno e ultraterreno, iniziazione e prova come cammino per giungere all'amore universale.

LE SUPESTIZIONI Tracciamo dove ci sembra più giusto il limite fra la credulità e la fede – e fra le credenze perverse e qualche innocua abitudine come quella di mettersi addosso un piccolo “portafortuna”. In mezzo, anche se non è facile definirne i confini, rimane qualcosa di molto insidioso: la superstizione. È incredibile quante persone, che non sono né sciocche né ignoranti, riescano a “credere” nelle cose più assurde e bizzarre, senza chiedersi quale ne possa essere l’origine. Un po’ di ricerca storica ci fa scoprire che passare sotto una scala era pericoloso (talvolta può esserlo ancora oggi) se sopra c’era qualcuno al lavoro che poteva lasciar cadere un martello. L’improvviso passaggio di un gatto nero nella notte poteva far imbizzarrire i cavalli. Nel Settecento, quando nacque l’idea che un cappello sul letto porta sfortuna, non era consigliabile mettere dove si dormiva un ricettacolo di sporcizia e di parassiti che proliferavano nelle parrucche incipriate. E, a quell’epoca, i “guai” stavano nel fatto che gli specchi erano oggetti rari, costavano molti soldi e ci volevano sette anni di lavoro per molarli e inciderli. Altra credenza riguarda regalare frutta secca come mandorle, nocciole, pinoli ricoperte da miele, come augurio di felicità e prosperità. Con la scoperta dello zucchero che veniva importato dalle Indie Orientali, questi piccoli bons-bons divennero molto costosi e quindi utilizzati solo nelle famiglie più ricche. Nel settecento, durante i festeggiamenti per il Carnevale, le famiglie nobili usavano lanciare questi piccoli dolci dalle finestre sulla folla, in segno di apprezzamento e di dono "al popolo". Napoleone fece il suo ingresso trionfale a Verdun sotto tre archi costruiti interamente con confetti. Nacquero piccoli scrigni preziosi (vere e proprie opere d'arte cesellate in metalli preziosi come l'oro) che contenevano questi bons-bons. Molto diffusi fin dal 1700 dove venivano donati come oggetto porta fortuna; in Italia a fine ottocento Umberto I Re D'Italia scelse, per le nozze di suo figlio Vittorio Emanuele con Elena di Montenegro, una piccola scatola d'argento con monogramma in smalto a fuoco. Fu così che prese vita la tradizione delle bomboniere, dono beneaugurante degli sposi agli invitati.



Salvo Arcifa

"Mi disse che invece di pensare a vendicarmi dell'affronto avrei fatto meglio a mettermi in salvo [...]"
Il duello e la difesa dell'onore

IL DUELLO E LA DIFESA DELL’ONORE NEL ‘700


Si definisce “duello” il combattimento formalizzato tra due persone. Nelle modalità in cui è stato praticato dal XV secolo in poi nelle società occidentali, il termine fa riferimento ad un combattimento consensuale e prestabilito che scaturisce per la difesa dell'onore, della giustizia e della rispettabilità che si svolge secondo regole accettate in modo esplicito o implicito tra uomini di medesimo ceto sociale e armati nel medesimo modo. Il duello è infatti svolto tra persone dello stesso ceto sociale, in quanto non ha senso che persone di classi sociali diverse si scontrino per principi di onorabilità che sono differenti tra i duellanti. Il duello è comunque tipico delle classi elevate, infatti anche se nelle classi più popolari esiste il duello cosiddetto rusticano, esso si svolge con pugnali e segue delle regole meno rigorose.

L'obiettivo primario del duello non è quasi mai l'estinzione fisica dell'avversario quanto ottenere soddisfazione, ovvero ristabilire l'onore e la rispettabilità pur mettendo a rischio la propria incolumità.

Nato nell’alto Medioevo, il costume del duello è l’espressione più estrema della cultura cavalleresca. Diffusosi con particolare intensità nel secolo XVII, al tempo della guerra dei Trent’anni (1618-1648), in una fase di debolezza del potere centrale, il duello costituisce un modo per emettere una sentenza nel caso di gravi litigi tra privati: in mancanza di confessioni e di testimoni, la verità giudiziale poteva scaturire da un combattimento pubblico presieduto dal sovrano.

In quel periodo c’era l'usanza nell’aristocratica di chiedere al re l'autorizzazione per combattere in campo chiuso a seguito di un'offesa ricevuta. Il re, che assisteva al combattimento, poteva interromperlo in qualunque momento gettando lo scettro tra i combattenti. In seguito, la superstizione ancorata alla presenza del giudizio di Dio assicurava la vittoria al giusto e la punizione all'ingiusto,il combattimento divenne poi strumento/mezzo per risolvere problemi personali o di persecuzione legale.

Il duello moderno nasce fra il XVI e XVII secolo in un periodo di transizione tra l’epoca medievale e quella moderna. Nato in Italia,il duello venne dapprima praticato in Francia e poi si diffuse nel resto d’Europa.

Dal Concilio di Trento nel 1563 fu abolito il duello come strumento legale. Re e imperatori che lo concedevano ricevevano come pena la scomunica. Per duellanti e padrini, oltre alla scomunica, c’era anche la confisca dei beni e l’infamia perenne. Infine chi ne usciva vincitore veniva malgrado accusato di omicidio. Vietare il duello significava, colpire la pretesa della nobiltà di esercitare la giustizia autonomamente.Tuttavia, se le leggi dello stato e quelle religiose lo disapprovavano, con l’andar del tempo tale pratica cominciò ad essere ufficiosamente tollerata. Sottobanco, infatti, si svolgevano duelli “contra legem”, nei confronti dei quali si chiudeva quasi sempre un occhio. Nel ’600 il filosofo Hobbes auspicava un po’ di indulgenza per il duellante, stretto da una parte dalla legge che proibiva il duello e dall’altra dalla società che verteva ancora su valori di ceto e d’onore.

Anche nel ‘700 in piena Età della ragione, quando gli intellettuali erano ormai schierati all’unisono contro il duello considerato alla stregua di una moda crudele, la pratica del duello rappresentò un caso esemplare che mise in luce aspetti contraddittori ed anacronistici, elementi di contrasto tra le leggi dell’onore che esaltavano il coraggio e l’orgoglio e gli ideali di virtù, sia morale che civica. In generale, gli illuministi deploravano il duello, pratica nella quale non trovavano nulla di nobile, ma al contrario definivano uno dei crimini più funesti e orribili del genere umano. Inoltre, proprio perché il duellante si poneva al di sopra della legge, esso veniva considerato come una minaccia nei confronti dei difensori dello Stato. Per questa ragione l’abolizione dei duelli fu considerata, sotto Luigi XIV uno dei “più grandi servizi resi alla patria”.Tuttavia, gli intellettuali dell’epoca si resero conto che non bastava essere ostili al duello per segnare la fine di tale pratica, ma bisognava cogliere l’etica aristocratica nella quale essa affondava le radici. Sin dalla nascita, per un nobile,la cosa principale era l’onore che non richiedeva solo il coraggio, ma escludeva ogni forma di codardia. Ecco perché, tranne qualche rara eccezione, i re si mostravano clementi nei confronti di combattenti di cui ammiravano l’audacia e lo sprezzo del pericolo. Lo stesso Cesare Beccaria in un capitolo della sua opera “Dei delitti e delle pene” si chiese come mai una pratica che la legge puniva continuava a sopravvivere nella società. Secondo Beccaria la risposta si celava in un paradosso: se il sovrano impediva il duello condannava l’offeso ad un’infamia. Per Beccaria allora il legislatore doveva fare in modo che l’opinione fosse sottomessa al regime della giustizia di Stato, i cittadini dovevano imparare a temere le leggi e non gli uomini. Inoltre, preoccupandosi di coloro i quali erano vittime dei costumi, esortava a punire solo il responsabile del duello. Le stesse leggi dell’onore obbligavano un uomo onesto a vendicarsi quando questo fosse stato offeso, e nel contempo ad essere punito dalla giustizia con pene crudeli qualora si fosse vendicato. Se si seguivano le leggi dell’onore si moriva sul patibolo, se si seguivano quelle della giustizia, si era banditi a vita dalla società degli uomini: l’alternativa era dunque morire o essere indegni di vivere. Riconducendo il desiderio di gloria e il rifiuto del disonore ad un istinto naturale, alcuni intellettuali e filosofi del ‘700 come Montesquieu esortarono il legislatore a rispettare i costumi che regolavano le azioni degli uomini e a non promulgare delle leggi contrarie allo spirito generale dei popoli.

Per parecchio tempo,pur essendo considerato illegale, il duello continuò ad essere una pratica tollerata dalla legge.In particolare i Codici italiani hanno sempre previsto articoli specifici riguardanti il duello, affinché chi ricorreva cavallerescamente ad esso in caso di conclamate offese non corresse il rischio di essere assimilato a volgari malfattori. Ancora nell’Ottocento, in quasi tutta Europa, si promulgavano leggi che proibivano e punivano il ricorso al duello, ma si duellava come esibizione di coraggio. In Italia il reato di duello è stato cancellato dal codice penale appena quindici anni fa, nel 1999.

LE REGOLE DEL DUELLO

Ma che cosa provocava il disonore e quindi l’ira dell’offeso? L’offesa peggiore era il mancato rispetto della parola data, oppure insidiare la moglie altrui. Tuttavia, a volte bastava anche solo uno sguardo storto e piccole provocazioni ad indurre il nobile a difendere il suo onore e quindi a sfidare colui che aveva procurato l’offesa. Tale pratica seguiva delle regole ben precise.

Il duello aveva luogo generalmente su richiesta di uno dei contendenti (lo sfidante) per ottenere la riparazione di un'offesa che, secondo le regole cavalleresche italiane, poteva essere di tre tipi:

• Offesa semplice: riguardava genericamente offese ritenute non gravissime; arma adatta: spada.

• Offesa grave: riguardava offese relative generalmente all'onorabilità personale; arma adatta: sciabola.

• Offesa atroce: riguardava offese che coinvolgevano gli affetti familiari; arma adatta: pistola.

La sfida poteva avvenire personalmente (tipico il cosiddetto schiaffo che l'offeso dava col guanto all'offensore, il quale a sua volta raccoglieva il guanto gettato a terra se intendeva accettare la sfida) o per interposta persona. Comunque entro le 24 ore l'offeso inviava i suoi padrini all'offensore, che già avrebbe dovuto scegliere i suoi. L’offensore che rifiuta un duello viene detto vile, quello che invece lo accettava ma non si presentava era detto fellone.

I duellanti nominavano una persona di fiducia in loro rappresentanza,precisamente un secondo, il cui scopo era quello di trovare un luogo di ritrovo abbastanza riservato, affinché il duello potesse svolgersi senza interruzioni. Per questa stessa ragione, e per seguire una tradizione che si radicò molto presto, i duelli avevano luogo solitamente all'alba. Era dovere dei secondi inoltre accertarsi che le armi utilizzate fossero uguali e che il duello si svolgesse in modo corretto.

L'eventuale scelta delle armi spettava comunque all'offeso, che attraverso i padrini ne faceva comunicazione all'offensore, il quale però poteva reclamare l'uso dell'arma tipica. I padrini si accordavano su tutte le modalità: distanza tra i duellanti, uso delle armi, modalità di svolgimento, termine del duello e così via. Gli stessi avevano poi il compito di verificare la funzionalità delle armi e di custodirle fino all'inizio del duello.

Il duello,che si svolgeva di norma fuori città, terminava solitamente alla prima ferita, cosicché il vincitore del duello era colui che era rimasto incolume. Nelle tipologie di offesa 2 e 3 ci si poteva però accordare di fermarsi solo nel caso in cui uno dei duellanti fosse stato impossibilitato a continuare. Se addirittura si stabiliva che il duello dovesse finire solo con la morte di uno dei due contendenti, esso si sarebbe chiamato duello all'ultimo sangue. I duelli all'ultimo sangue erano in genere ritenuti barbari e comunque contemplabili solo nei casi più gravi della terza tipologia di offesa.

A scelta della persona offesa, il duello poteva dunque essere:

• Di primo sangue, interrotto non appena uno dei duellanti fosse stato ferito dall'altro, anche in modo lieve;

• Tale da proseguire finché uno dei duellanti non fosse stato così ferito o stanco da essere fisicamente incapace di continuare;

• All’ultimo sangue, sino alla morte di uno dei contendenti.



I duelli potevano essere combattuti con diversi tipi di spada (come per esempio la sciabola o lo stocco) e dal Settecento, con la pistola. Alcuni armaioli si erano specializzati nella fabbricazione di pistole da duello a colpo singolo, utili esclusivamente allo scopo del combattimento regolamentato tra due persone.

Marco Colombo



Il padre era Gaetano Casanova, un attore e ballerino parmigiano; la madre era invece, Zanetta Faresi, un'attrice veneziana.
Il ruolo politico e sociale del teatro

IL RUOLO POLITICO E SOCIALE DEL TEATRO SETTECENTESCO


Nel Settecento - hanno scritto di recente P. Holland e M. Patterson – “il teatro acquisisce nell'Europa continentale una funzione sociale che non aveva dai tempi della Grecia. Da spettacolo di corte o di piazza divenne per la borghesia un luogo di dibattito politico, oltre che un punto di riferimento per l'identità nazionale, e persino per la rivoluzione. Non più formale e stilizzato, né volgare e grossolano, il teatro approdò a un nuovo livello di realismo: cominciò a cercare l'autenticità e a riflettere in modo nuovo la vita quotidiana degli spettatori. Iniziò a discutere la propria estetica e a evolversi da mestiere ad arte. Gli attori e le attrici non furono più messi sullo stesso piano delle prostitute e dei giocolieri, diventarono membri privilegiati della società, e i drammaturghi cominciarono a essere pagati adeguatamente per il loro lavoro” . Il Settecento è il secolo in cui è portato a conclusione quel processo di rivoluzione dell'architettura teatrale, iniziato a metà Seicento, che consiste nella costruzione dell'edificio e della sala teatrale pubblica, così come siamo ancor oggi abituati, d'istinto, a concepirla. È la cosiddetta “sala all'italiana”: un emiciclo - sia esso a U, o a ferro di cavallo, o a campana, oppure a ellisse - chiuso dal fronte del palcoscenico, con la sua larghezza, profondità e altezza, e costituito da una sala o platea e da un sistema di palchi a più piani, che la circondano e la terminano. "Si guarda dai palchi - ha scritto Fabrizio Cruciani - e si guardano gli spettatori nei palchi: lo spazio della sala si realizza come luogo dello sguardo in tutte le sue possibili implicazioni, esiste come 'interno', mondo autonomo e separato per la vita extraquotidiana dello spettatore, luogo popolato di presenze potenziali prima di essere riempito: significante prima degli spettacoli”. In questo "mondo autonomo" si formano un nuovo spettatore, un nuovo pubblico, una nuova società teatrale. Non è dunque un caso, né una pura moda se il cosiddetto “teatro all'italiana” si diffonde a raggiera in tutta Europa: esso "è uno spazio di relazione, interno e assoluto, un ambiente che deriva e fonda una forma mentis del teatro". Si dotano di teatri con la morfologia che abbiamo descritto Parigi, Berlino, Bayreuth, Mannheim, Dresda, Monaco, Lione, Metz, Montpellier, Bordeaux. C.N. Cochin osserva nel 1749 che "il teatro è diventato uno dei principali oggetti di curiosità per coloro che compiono il viaggio in Italia", e tra il 1760 e il 1770 G.P. Martin Dumont sente il dovere di pubblicare in dispense un Parallelo delle piante delle più belle sale di spettacolo d'Italia e di Francia.

In queste sale viene educandosi, sera dopo sera, un nuovo pubblico a pagamento, che rifiuta istintivamente un'idea di teatro elitario, depositario di astrattamente raffinate invenzioni allegoriche o simboliche, e che al tempo stesso prova un esplicito fastidio per le varie forme di teatro 'povero'). È un pubblico costituito dalla media e alta borghesia che in Francia, in Inghilterra, in Germania (a Parigi, a Londra, ad Amburgo) pretende che il teatro 'comunichi', che si faccia cioè propositore di una realtà morale e sociale a lui contemporanea: un pubblico che sente come un proprio diritto inalienabile quello di mostrarsi criticamente attivo non solo verso il singolo drammaturgo e la sua opera, ma anche, e soprattutto, verso lo spettacolo e i suoi interpreti, dando prova di una spiccata competenza in merito all'allestimento e all'interpretazione. È sull'impulso di un pubblico come questo che nelle numerose sale teatrali parigine - come la Comédie Française o il Théâtre Italien - si guarda con particolare attenzione alla scelta del repertorio e alla preparazione culturale degli interpreti: una mademoiselle Clairon (1723-1803) o un Lekain (1728-1788), cioè i due primattori francesi del secolo, sono dei veri e propri intellettuali. È per questo pubblico, attento, esigente e colto, che David Garrick (1717-1779), il più grande attore londinese del tempo, matura quel modello di 'naturalezza recitativa' che è l'esatto opposto della pomposa enfasi, dell'oratoria retoricheggiante, dominante nello spettacolo seicentesco di corte è un libro nato per il pubblico, in qualche modo preteso dal pubblico. I borghesi commercianti della vitalissima città tedesca si quotano perché vi venga costruito un nuovo teatro, lo inaugurano il 22 aprile 1767, ne affidano la direzione a Iohan Frederick Loewen, mentre il Dramaturg, cioè il responsabile del repertorio, sarà lo stesso Lessing. Lo scrittore nella sua opera propugna con estremo coraggio una nuova responsabilità del pubblico, chiamato a esercitarsi criticamente sullo spettacolo: giacché il teatro è lo specchio morale di una nazione, ed è l'istituzione pedagogica che, con gli strumenti dell'arte scenica, può rinnovare le coscienze e aprirle a una nuova sensibilità, democratica e progressiva.

Treccani enciclopedie


Il teatro è sempre di più il centro della vita sociale, la continua costruzione di edifici teatrali nel settecento dimostra che in essi si vedeva una necessità e si era certi della loro longevità.

Il teatro “inteso come istituzione e monumento era il teatro d’opera” e tra i generi viene prima di tutto la lirica, ovvero il teatro musicato e cantato, che si impone nel settecento in Italia (e nel resto d’Europa) anche come sorta di “scuola” per il popolo e per tutti coloro che non potevano avere altra istruzione - tantissimi quindi - e altri contatti con la cultura e l’arte.

Sono sempre più i compositori che scrivono per il teatro e l’Italia, con la nascita di grandi autori nei secoli avvenire, diventerà sempre più il ”paese del melodramma” . Durante tutto il settecento la musica è “schiava della parola”, solo all’estero il rapporto si stava ribaltando grazie, soprattutto, a Mozart.

Con l’inizio del settecento, il pubblico è ormai educato e pretende qualità degli spettacoli. Da tutto ciò consegue un aumento delle spese per la gestione dei teatri (aggravate dall’avvento della costosa illuminazione a gas, che finì inoltre per bruciare non pochi teatri), e sempre maggiori difficoltà per gli impresari che dovevano, quantomeno, diversificare l’organizzazione, dividersi il lavoro con altre persone.

Il gioco d’azzardo sarà inoltre sempre meno possibile. I giovani Stati nazionali, nella loro ansia di mettere ordine, proibiscono o regolano drasticamente anche questo, permettendo in alcuni casi solo lotterie e tombole .

Pratica ed etica del management teatrale, Alessandro Aquarone


Il teatro d’opera in Europa nel Settecento inizia a manifestare i segni di una crisi che esprimeva l’inadeguatezza delle grandi forme drammatiche e del dramma lirico, di fronte alle esigenze di un pubblico ormai mutato nella sua composizione sociale. Nacque così la diatriba tra i sostenitori dell’opera seria alla francese e quelli dell’opera buffa all’italiana. Gli Intellettuali e philophes si schierarono con i filo italiani, perché la vedevano come la nuova forma antiaccademica di teatro borghese.

Il teatro d’opera in Europa nel ‘700, Gherardo Fabretti



Il bisogno di una riforma nasce già nello spirito del razionalismo arcadico che aspirava alla semplicità, all'ordine razionale, al buon gusto. Goldoni era un uomo di teatro che lavorava a diretto contatto con il pubblico, di cui conosceva i gusti e le preferenze. Egli obbligò gli attori a riferirsi a un testo scritto, rinunciò alle facili buffonerie, eliminò gradualmente le maschere, conferendo loro un'individualità sempre più marcata, trasformando la Commedia dell'Arte in "commedia di carattere" e inserì l'azione nel concreto tessuto sociale della classe borghese mercantile.

La risposta negativa da parte di attori e pubblico fu ovvia: gli attori si vedevano tolte le loro abitudini e il pubblico assisteva non più a commedie dove si rideva di gusto, bensì dove si "sorrideva" per la sottigliezza di alcune battute. Inoltre la fama degli attori era minore, la bravura stava nello scrittore dell'opera, molto meno nell'esposizione del personaggio.

Altra novità di Goldoni è la sua esigenza moralizzatrice: la commedia deve insegnare il buon senso borghese, senza moralismi, anzi con grande fiducia nella natura umana: non per caso Goldoni appartiene al '700 illuminista, animato da ideali di tolleranza e pacifica convivenza tra gli uomini.

Così Goldoni cambia le ambientazioni, cambia i personaggi rappresentati. Non si tratta più del ricco col servo povero, ma si parla di una simpatica e furba locandiera, come Mirandolina, o di un attento "caffettiere", come Ridolfo; è con tali personaggi che Goldoni dice "stop" allo stereotipo.

Wikipedia, Riforma del teatro


Carlo Goldoni usa la parola "arte" nell'accezione di professione, mestiere, ovvero l'insieme di quanti esercitano tale professione. Commedia dell'arte dunque come "commedia della professione" o "dei professionisti".

In effetti in italiano il termine "arte" aveva due significati: quello di opera dell'ingegno ma anche quello di mestiere, lavoro, professione (le Corporazioni delle arti e mestieri). Goldoni fu un riformatore e uno sperimentatore, spaziando dalla commedia di carattere a quella di ambiente, dalla drammaturgia borghese a quella popolare, dalla commedia dialettale esaustiva alla rappresentazione della realtà veneziana focalizzata nelle contraddizioni sociali, politiche e economiche.

La commedia dell'arte affonda le sue radici nella tradizione dei giullari e dei saltimbanchi medievali che, in occasione di ricorrenze festive o del carnevale, allietavano corti e piazze con farse, mariazzi (grottesche scenette di vita matrimoniale), "barcellette" (da cui la moderna barzelletta), raccontate e mimate da attori solisti, e con il loro "ridicoloso" modo di parlare, muoversi e vestirsi.

La prima contingenza fu la nascita dei teatri privati, specialmente a Venezia dove le famiglie nobili iniziano una politica di diffusione, all'interno della città, di nuovi spazi spettacolari dedicati alla recitazione di commedie e melodrammi a pagamento.

Anche i Vendramin e soprattutto la famiglia Grimani (che all'inizio del Settecento aveva monopolizzato l'intera, o quasi, industria degli spazi teatrali veneziani) fecero costruire altri teatri per le rappresentazioni dei comici dell'arte come il Teatro Santi Giovanni e Paolo nel sestiere periferico di Cannaregio, ma anche del San Moisè, del teatro San Luca e del Teatro Sant'Angelo costruiti sul Canal Grande, sintomo dell'importanza che i teatri a pagamento avevano acquistato non soltanto a Venezia.

Gaia Giarrizzo



Le compagnie teatrali italiane

Le compagnie teatrali italiane

 
 
Conosciuto e rinomato in tutta Europa,durante il XVIII secolo il Carnevale di Venezia diventò una vera e propria istituzione. Raggiunge il suo massimo splendore e riconoscimento internazionale, diventando meta turistica di migliaia di visitatori. L’atmosfera trasgressiva, le maschere, gli straordinari spettacoli e la Casa da Gioco Pubblica rendono Venezia “La calamita d’Europa”.
Il carnevale diede la possibilità agli abitanti, di celare completamente la propria identità sotto dei costumi,portando molto spesso a qualche eccesso. Ben presto gli intenti, le origini e il significato stesso della festa, provocarono l’effetto opposto a quello iniziale: si sfruttano i travestimenti per escogitare sempre più furti, ruberie e molestie di vario genere. Questi gravi eccessi costrinsero la Serenissima a emanare una lunga serie di decreti per limitare l’utilizzo fraudolento di maschere e costumi a Venezia, provvedimenti che andarono sempre di più a minare le origini di libertà e uguaglianza del Carnevale.
Soprattutto nelle ore notturne,i delinquenti potevano liberamente commettere reati di varia natura con la certezza di restare impuniti grazie all’ anonimato garantito dalla maschera. Così fu decretato il divieto di circolare per Venezia con maschere e costumi di Carnevale nelle ore notturne.Un altro abuso da tenere a freno riguardava la possibilità di indossare abiti da donna o da religioso per introdursi in chiese, monasteri o conventi e commettere atti indecenti e libertini. Fu proibito l’ingresso ai luoghi sacri indossando maschere. Riguardo i pericoli per la pubblica sicurezza degli stessi abitanti di Venezia, dati dalla possibilità di nascondere armi ed altri oggetti pericolosi sotto gli abiti di Carnevale, vennero emessi numerosi atti ufficiali contenenti il divieto di portare con sé oggetti di natura pericolosa.Con la diffusione delle case da gioco vi erano più episodi di alcuni giocatori d’azzardo,in maschera che sfruttavano l’anonimato. Dal 1703 fu proibito recarsi nelle case da gioco con maschere e costumi di Carnevale. Più tardi, nel 1776, una nuova legge, questa volta fatta per proteggere “ l’onore di famiglia”, proibiva alle donne di recarsi a teatro senza una maschera.
Con la caduta della Serenissima nel 1797 si arrivò alla proibizione definitiva dei costumi di Carnevale, con l’eccezione delle feste private nei palazzi veneziani e del Ballo della Cavalchina alla Fenice.Venezia subì un duro colpo d’arresto, una lunga fase di declino che portò al graduale spegnimento di tutte le feste ad esso collegate. È datato 1797 l’ultimo Carnevale di Venezia.La caduta della Serenissima per mano di Napoleone segnò la fine della lunghissima indipendenza di Venezia e la tradizione del carnevale fu interrotta. I festeggiamenti proseguirono solo a Burano e Murano anche se intono minore.
Tra i travestimenti più comuni del carnevale soprattutto settecentesco, è la Bauta; indossata sia dagli uomini sia dalle donne. Un altro costume tipico era la Gnaga, un travestimento per donne. Il personaggio doveva interpretare le vesti di una balia. Molte donne invece indossavano un travestimento chiamato Moretta. Era un travestimento muto,poiché la maschera doveva reggersi sul volto tenendo in bocca un bottone interno.
Il carnevale diede inizio a un numero crescente di spettacoli mascherati allestiti nei teatri privati. Questi spettacoli erano inizialmente riservati a un pubblico di famiglie nobili. Con l’incremento del numero delle compagnie teatrali,si svilupparono vere e proprie attività legate al mondo della commedia teatrale. Emersero molti e talentuosi autori teatrali, tra cui il drammaturgo Carlo Goldoni il quale inventò per la prima volta, proprio a Venezia nel 1750 una nuova  definizione di “Commedia dell’arte”.
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 Fino alla metà del settecento per “Commedia dell’arte” si intendeva il lavoro di compagnie teatrali di attori girovaghi, i quali portavano i propri spettacoli soprattutto nelle piazze, intrattenendo il pubblico con rappresentazioni di carattere molto vivace e coinvolgente, basate su una recitazione improvvisata, imbastita su un semplice canovaccio: non un testo scritto organico e definito, ma piuttosto uno schema, una “scaletta” dei momenti salienti della vicenda e delle azioni sceniche, sul quale ogni voltagli attori improvvisavano battute e azioni, dando vita a personaggi che nel tempo giunsero ad assumere caratteristiche fisse fisiche e comportamentali, da cui avranno origine le maschere tradizionali.Un’altra definizione della Commedia dell’Arte, è la Commedia“all’ improvviso”.Gli attori delle compagnie sono chiamati “comici dell’Arte”:autori, interpreti, registi dei loro spettacoli; I personaggi sono le maschere:ciascun attore ne rappresenta una. Ogni maschera ha un repertorio di battute che la caratterizzano
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Vi erano, inoltre, dei “tipi fissi” cioè dei personaggi costruiti in modo semplice:un costume, un dialetto,l’età e un mestiere ben preciso. Non avendo la complessità dei personaggi inventati dagli scrittori,potevano riapparire in storie sempre diverse,cambiando leggermente il carattere.Ci fu la necessita da parte delle compagnie di creare rapidamente spettacoli sempre diversi, improvvisando poiché, la commedia dell’arte era in primo luogo un “commercio”. All’ inizio del settecento,una delle più importanti novità introdotte dalla Commedia dell’Arte fu la presenza in scena delle donne che recitano.
Goldoni nel 1750 realizzò una grande riforma per quanto riguarda le compagnie teatrali:
·        Tutte le compagnie teatrali dovevano sostituire ai canovacci un testo interamente scritto con le battute di ogni personaggio presente in scena.
·        Alle maschere dovevano essere sostituiti personaggi reali,propone dimettere in scena situazioni quotidiane,come ad esempio:i problemi delle famiglie borghesi e la vita dei gondolieri.
·        Ai personaggi femminili che prima avevano un ruolo secondario, Goldoni gli da grande importanza.
·        Attua una revisione per quanto riguarda il linguaggio: gli attori delle compagnie teatrali dovevano usare un linguaggio vicino a quello della lingua parlata.
Tra i teorici più importanti del settecento vi sono Giovan Battista Fagiuoli,
 
Iacopo Angelli Nelli e Girolamo Gigli  definiti pre goldoniani e il drammaturgo Goldoni che scrisse per le compagnie italiane due commedie: ”Il servitore di due padroni”,“La putta onorata” e nel 1750 dopo aver attuato la riforma scrisse  il testo-manifesto della sua riforma della commedia: il teatro comico. In questa commedia mette a confronto l’antica “Commedia dell’arte” e la sua “commedia riformata”.

 


Francesca Barbagallo

VENEZIA

"Non sentendomi colpevole non dovevo temere della giustizia del tribunale. Mi spiegò allora che un simile tribunale ne sapeva più di me e poteva attribuirmi dei crimini dei quali mi credevo innocente [...]"
Il sistema giudiziario

IL SISTEMA GIUDIZIARIO NELLA VENEZIA DEL 1700


 A partire dall'inizio del XVI° secolo il mondo feudale assiste alla propria dissoluzione; l'errata gestione dell'economia e della produzione suscitò un grande malcontento delle masse popolari che , ormai stanche dell'eccessivo carico di lavoro e dello sfruttamento, si diedero al vagabondaggio o effettuarono migrazioni verso le città con un economia più avanzata. Quest'ultime si riempirono gradualmente di vagabondi, mendicanti, briganti e disoccupati e il divario sociale, ormai evidente, che risiedeva nelle grandi città le rese ancora più insicure e pericolose. Con il passare del tempo si presentò anche il problema della mancanza di manodopera, causato dall'aumento di attività criminali e del vagabondaggio. Per ovviare a questo problema subentrarono molte leggi che limitavano la libertà dell'individuo , per esempio , persino i mendicanti vennero considerati criminali e anche ad essi si applicarono pene come la morte (normalmente spettavano a criminali più pericolosi).Tutto ciò fu controproducente poiché portò molta gente a seguire la vita da criminale, ed inoltre, le autorità persero molto potere perché le fila dell'esercito erano composte sempre più da schiavi e condannati. Da qui si capì che era necessario un sistema penale con una portata più ampia, ovvero, che non sia finalizzato solo a risolvere diatribe tra cittadini all'interno delle mura della città, ma che faccia capire che commettere un crimine vuol dire commetterlo nei confronti dell'intera società.
Potere e tribunali

In questo periodo il potere legislativo, quello giudiziario e quello esecutivo sono nelle mani del Sovrano ,quest'ultimo può anche delegare i suoi poteri ai vari organi o ai ministri ai fini di avere un controllo più semplice. La giurisdizione era esercitata dai tribunali, tra questi il più importante è quello del Re o del Sovrano, poi vi sono i tribunali speciali tra i quali il più famoso è quello ecclesiastico. Quest'ultimo possedeva l'autorità su tutte le questioni religiose e cercava l'espansione del suo potere anche negli altri ambiti, proprio per questo ,e anche per la troppa varietà di tribunali, si ritornò ad un accentramento del potere nelle mani del sovrano. Con l'assolutismo in Francia ed in Germania i sovrani formarono i grandi tribunali i quali sono i tribunali centrali dello stato regionale ed esprimono principalmente la volontà del Re , mentre in Italia i tribunali più importanti sono quelli della Sacra Rota di Roma e il Regio Consiglio del Regno di Napoli.
Leggi e sistema penale
In questo periodo era molto sviluppato il diritto comune, che fondamentalmente prende spunto dalle leggi romane, riadattate e applicate ai vari casi , poi vi sono le leggi emanate dal sovrano e le leggi emanate dai governi locali. Specialmente nelle monarchie assolute l'assegnazione delle pene per chi infrangesse la legge dipendeva dalla decisione totalmente arbitraria del giudice o del sovrano .Molto spesso, venivano fatte torture segrete per far ammettere la colpevolezza all'imputato anche se innocente ,infatti, non era importante scoprire la verità ma bensì determinare la colpa o l'innocenza dell'accusato nonostante si partisse dal presupposto che quest'ultimo fosse colpevole, per esempio molte persone vennero arrestate anche prima di commettere un reato . La pena più comune era quella di morte e veniva frequentemente eseguita in pubblico per deridere il colpevole e anche per instaurare un regime di terrore, mostrando ai cittadini le conseguenze dell'infrazione della legge.
Illuminismo e fine del terrore
A contrapporsi a questo sistemo giudiziario furono le idee derivanti dall'illuminismo , un movimento filosofico e politico nato in Inghilterra ma poi sviluppatosi in tutta Europa innalzando la cultura ,il sapere generale e spargendo idee di progresso e di libertà. Un esempio di come l'illuminismo si schierò contro il sistema giudiziario è proprio Cesare Beccaria: un italiano che scrisse " Dei delitti e delle pene" , un libro dove condannava la tortura, la pena di morte e tutti i crimini dello stato verso i cittadini. Molti stati aderirono alle idee illuministiche e abolirono la pena di morte e la tortura , in altri vi furono rivoluzioni che cambiarono radicalmente la libertà e i diritti dei cittadini ,mentre nei restanti si verificò una sensibilizzazione nei confronti dei diritti del condannato e la tortura non venne più utilizzata poiché considerata inutile .Da qui inizia a svilupparsi il sistema giudiziario contemporaneo.

Samuel Puglisi

"Queste prigioni si trovavano nelle soffitte del grande palazzo [...] e hanno il tetto coperto di lastre di piombo [...] perciò prendono il nome di Piombi."
Il carcere dei Piombi


I PIOMBI DI VENEZIA


I Piombi e i Pozzi sono delle prigioni che vennero costruite a Venezia nel 1610; esse sono collegate al Palazzo ducale (la sede del governo veneziano) tramite il "Ponte dei Sospiri". Fu denominato “Ponte dei Sospiri” poiché si diceva che i prigionieri, al loro passaggio, sospiravano pensando a quando avrebbero ottenuto nuovamente la libertà.

Ciò che caratterizza questa prigione è il tetto ricoperto di piombo, da questa caratteristica deriva il nome che gli venne attribuito: i Piombi.

Al suo interno le celle superiori erano vuote e disponevano soltanto di "un'alcova capace di contenere un letto"(come descrisse Giacomo Casanova nella sua opera “Storia della mia fuga dai Piombi”); così i prigionieri potevano richiedere agli arcieri di portare loro ciò di cui avevano bisogno.

Oltre i piombi troviamo i cosiddetti "Pozzi" e quattro "Segrete": i primi erano paragonati all'inferno in quanto erano piccole celle umide, illuminate parzialmente da lumi a olio, le sue mura erano ricoperte da fori sbarrati nei quali vi era il passaggio di aria e acqua, inoltre, in ognuna di queste celle vi era una lettiera di legno e una mensola; mentre le "Segrete" sono abbastanza ampie e luminose, con vista sulla città. Una rivolta ad occidente e tre ad oriente affacciate sul canale “Rio del Palazzo”. Troviamo conferma nell'opera di Silvio Pellico "Le mie prigioni" nella quale egli descrive con le seguenti parole la sua cella: "la mia stanza avea una gran finestra, con enorme inferriata, e guardava sul tetto parimente di piombo della chiesa di San Marco".

I prigionieri ricevevano pasti il più delle volte insufficienti che dovevano autonomamente pagare.

Vi erano regole severissime: i prigionieri potevano leggere, ma non scrivere e non potevano fare uso di una lucerna; d'estate, il piombo rendeva afoso l'ambiente, mentre d'inverno, i prigionieri erano costretti a patire il freddo e l'umidità.

Attraverso una piccola scala si giunge a due piccole stanze dove risedeva il Notaio Ducale, Segretario della Repubblica, e il Deputato alla Segreta che curava l'Archivio Generale. Un'altra scala conduce alla Sala della Cancelleria Segreta, una stanza costituita da grandi armadi in cui vi erano conservati gli atti pubblici e le scritture segrete delle magistrature veneziane. Infine, vi è la “Stanza della Tortura”, (chiamata anche Camera del Tormento) collegata alle prigioni. In questa stanza avvenivano gli interrogatori dove lo strumento più adoperato era la corda alla quale il prigioniero veniva appeso e tirato per le braccia, legate dietro la schiena. Questa pratica fu abolita agli inizi del Settecento.

Dal sottotetto dei piombi si poteva accedere alla Sala dei tre Capi (magistrati scelti ogni mese nel Consiglio dei Dieci che avevano il compito di preparare i processi). In questa sala vi era un passaggio segreto, nascosto da un armadio di legno, attraverso il quale era possibile accedere alla Sala del Consiglio dei Dieci.



Valeria Puglisi

"[...] ai patrizi si danno tre lire!"
Il ruolo del patriziato veneziano

IL RUOLO DEL PATRIZIATO VENEZIANO



Il Patriziato veneziano costituiva uno dei tre corpi sociali in cui era suddivisa la società della Repubblica Veneta, assieme ai cittadini e ai foresti (forestieri). “Patrizio” era il titolo nobiliare spettante ai membri dell'aristocrazia al governo della città di Venezia e della Serenissima.

Fondamento basilare dell'appartenenza al Patriziato era il possesso esclusivo del potere politico. Nella Serenissima Repubblica troviamo famiglie di antico lignaggio che avevano origine tribunizia, discendenti cioè, dai tribuni che avevano governato prima della creazione del dogato. Erano queste le famiglie antichissime o dette anche apostoliche dal loro numero -dodici-, alle quali andavano aggiunte le altre quattro dette evangeliste. A queste più antiche famiglie si aggiunsero le nove (nuove), cioè quelle che avevano raggiunto la nobiltà prima della serrata del Maggior Consiglio avvenuta nel 1260 e infine le novissime, ascritte al patriziato nel 1391. Erano tutte famiglie che potevano vantare tra i propri antenati, dogi papi e cardinali. A queste si aggiunsero tra il 1600 e 1700 altre famiglie che furono nobilitate per soldo, cioè, offrendo alla Repubblica (già in declino) centomila ducati (pari a circa un miliardo di euro) furono trascritte nel libro d'oro della nobiltà.

I patrizi veneziani erano tra i pochi in Europa che esercitavano il commercio, considerata arte vile e normalmente disdegnata dalla nobiltà feudale. Si trattava comunque di commercio al livello industriale e di carattere internazionale giacché collegato con i traffici marittimi e con l'attività armatoriale. Moltissimi erano i “capitani generali da mar” che in tempo di guerra erano scelti tra i patrizi che conoscevano l'arte marinaresca e ai quali veniva affidata la condotta della guerra marittima. I figli dei nobili, infatti, erano imbarcati in giovanissima età sulle navi, dove facevano la loro esperienza. Il caso di Marco Polo partito per la Cina a dodici anni non era un'eccezione.

Una delle caratteristiche del patriziato veneziano era quella di non avere titoli e predicati, di cui in verità non avevano bisogno.

La vita dei patrizi veneziani non era meno sfarzosa delle ville che abitavano. Le feste si susseguivano e ai balli e ai banchetti, si alternavano gite in campagna, battute di caccia, partite a carte e giochi di società; il momento più solenne però, era quello del caffè, servito alle cinque di pomeriggio.

Di questa bevanda a Venezia se ne faceva un tale uso che il suo acquisto assorbiva una buona parte del budget domestico.

Il Patriziato Veneziano rappresenta tuttora la più importante classe dirigente che abbia mai operato nella storia umana, così come la Veneta Serenissima Repubblica che fu il perfetto modello di Stato democratico, dato che rappresentava al meglio il popolo. Il Patriziato Veneziano era animato dalla Fede in Gesù Cristo, dandovi costante e concreta testimonianza, e l’insegnamento Evangelico era il sicuro riferimento morale delle sue scelte, persino in campo giuridico e giudiziario. Nel caso specifico, la politica fiscale veneziana consentì tra Sei e Settecento uno sviluppo eccezionale della produzione agricola e manifatturiera: la Villa veneta diventerà un mito in tutta Europa, poiché coniugava la forte valenza economica come azienda ed epicentro organizzativo del territorio, con lo splendore incantevole delle sue forme. Non erano residenze esclusive, bensì “la casa” dell’intero contado: tutto intorno non si vedeva, infatti, un solo recinto.

Un esempio di famiglia patrizia veneziana furono i “Gheltof”.

Il capostipite della casata è individuato nel giovane Giovan Francesco Anniox, fiammingo di Anversa, figlio di un sarto, il quale si arruolò come marinaio su una nave del ricco mercante Gheltof, residente da lungo tempo a Venezia, dove esercitava il commercio di droghe. Essendosi particolarmente affezionato al giovane, il Gheltof decise di prenderselo in casa, come servitore, e di farlo studiare.

Il ricco Gheltof aveva avuto due figlie da un'amante, che sposò soltanto da vecchio, e, dopo la tragica morte di una delle due, precipitata giù dal balcone del teatro di S. Giovanni Grisostomo, si occupava del matrimonio dell’altra, che sarebbe stata erede di tutto il suo patrimonio. Pare che la giovane, proprio per la ricca dote che la accompagnava, avesse ricevuto varie proposte di matrimonio da parte di alcuni membri del Senato. L'intraprendente Anniox, tuttavia, giocò d'anticipo e, comprato l'appoggio di un ricco ebreo che godeva di grande credito e fiducia presso il Gheltof, «gli fece il medesimo insinuar il matrimonio della figlia con sé stesso». Convinto della proposta, il Gheltof decise di concedere la mano della figlia all'Anniox, designandolo erede universale delle proprie ricchezze e del proprio cognome, con l'unica clausola di nobilitare la famiglia, «subito che con due maschi vedesse stabilita la casa».

Fu così che l'Anniox, sotto il nome di Gheltof, versò 100.000 ducati all'erario pubblico veneziano, a sostegno dello sforzo bellico che la Repubblica stava compiendo in quegli anni contro i Turchi per il controllo della Morea. Il 22 settembre 1697, con 175 voti a favore, 28 contrari e 3 astenuti, il Senato accettò i Gheltof nel novero del patriziato veneto.

Essere patrizi veneti era un onore per tutta la nobiltà europea ed era comune tra principi e re chiedere ed ottenere il titolo di N.H., furono patrizi veneti, tra gli altri, i re di Francia, i Savoia, i Mancini, i Mazzarino, i Rospigliosi, le famiglie papaline degli Orsini e dei Colonna.

Giuseppe Pappalardo




"Mi avevano detto che in questa gloriosa repubblica tutti godono di un'onesta libertà [...]"
La repubblica di Venezia

LA REPUBBLICA DI VENEZIA

La Repubblica di Venezia (in latinoVenetiarum Respublica)fu un antico Stato italiano, con capitale la città di Venezia. Era nota anche come Repubblica di San Marco o anche col semplice appellativo di Serenissima.

Lo Stato includeva gran parte dell'Italia nord-orientale, nonché dell'Istria e della Dalmazia, numerose isole del Mare Adriatico e dello Ionio orientale. Al massimo della sua espansione, tra il XIII e il XVI secolo, comprendeva il Peloponneso, Creta,Cipro ( annessa nel1489) e gran parte delle isole greche, oltre a diverse città e porti del Mediterraneo orientale.

Per secoli la Repubblica era formata da isole e fasce costiere che costituivano il cosiddetto Stato da Màr. Erano presenti alcune aree di terra che costituivano i capisaldi difensivi contro l'espansione di città confinanti.



Le istituzioni di Governo

Le istituzioni del Governo della Repubblica di Venezia erano strutturate su più livelli:


• Doge

Supremo magistrato della Repubblica, era eletto a vita dal momento dell'elezione, che avveniva con un complicatissimo sistema di votazioni e ballottaggi (estrazioni a sorte).L'incoronazione avveniva davanti al popolo, con la pronuncia della Promissione Ducale. Egli risiedeva nel Palazzo Ducale, tuttavia doveva provvedere da sé al sostentamento proprio e della propria famiglia; i suoi unici poteri consistevano nella nomina del Primicerio e dei canonici della Basilica di San Marco e la facoltà di condurre in guerra l'armata.


• Minor Consiglio e Serenissima Signoria

Il Minor Consiglio si componeva dei sei Consiglieri ducali: aveva il compito di sorvegliare strettamente l'operato del Doge, per limitarne i poteri. Il più anziano dei sei consiglieri sostituiva il "Serenissimo Principe" nei casi d'assenza o d’impedimento. Il Minor Consiglio e i Tre Capi della Quarantia, costituivano, assieme al Doge, la Serenissima Signoria, organo di presidenza di tutte le assemblee dello Stato.


• Collegio

Il Collegio dei Savi costituiva il consiglio dei ministri della Repubblica. Si componeva di sei Savi Grandi, cinque Savi agli Ordini e cinque Savi de Teraferma, che si occupavano di politica estera, finanze e affari militari, stabilendo l'agenda dei lavori del Senato; nei casi in cui veniva presieduto dalla Signoria il Collegio assumeva il nome di Pieno Collegio.


• Senato

Era noto anche come Consiglio dei Pregadi (cioè coloro che venivano "pregati" di fornire il proprio consiglio al Doge). Il Senato della Repubblica si componeva del Pien Collegio e di sessanta senatori, cui si aggiungevano i sessanta membri della Zonta. A questi senatori di diritto potevano aggiungersi ex officio funzionari, ambasciatori, comandanti militari, etc., di volta in volta convocati per riferire delle loro missioni o per fornire il proprio parere nelle questioni trattate. Il Senato era infatti l'organo deliberativo della Repubblica, che si occupava di discutere della politica estera e dei problemi correnti.


• Consiglio dei Dieci e Inquisitori di Stato

Il Consiglio dei X era composto di dieci membri con incarico annuale, dotati di ampi poteri al fine di garantire la sicurezza della Repubblica e del suo governo. Ad essi si affiancava un magistrato dei Tre inquisitori di Stato, incaricato di proteggere il segreto di Stato. Emettevano un giudizio esecutivo, inappellabile e, all'occorrenza, segreto. Nacque il 20 luglio 1335 come istituzione provvisoria, venne poi resa permanente e durerà fino alla fine della Repubblica di Venezia nel 1797.


• Quarantia

Il Consiglio dei XL era l'organo che si occupava dellaprogrammazione finanziaria e del governo della Zecca, operando inoltre come Supremo Tribunale nei procedimenti ordinali civili e penali. Era suddiviso in tre sezioni :Quarantia Criminale, Quarantia Civil Vecchia e Quarantia Civil Nuova.


• Maggior Consiglio

Era l'organo sovrano dello Stato veneziano, cui appartenevano, automaticamente e di diritto tutti i membri maschi e maggiorenni delle famiglie patrizie: tale assemblea aveva competenza illimitata in qualunque materia e procedeva all'elezione di tutti gli altri consigli e magistrature.

• Magistrature di città


Vigilavano sull'ordinepubblico, dividendosi in due parti: i "Signori di notte" e gli "Esecutori contro la bestemmia". A vigilare sulla sicurezza sanitaria era il Magistrato di Sanità.

Economia e commercio


I prosperosi commerci erano alla base del successo e dell'ascesa politica della Repubblica di Venezia.

Fin dalle sue origini, infatti, la città vantava uno speciale legame con l'Oriente, che l'aveva resa per l'intera Europa occidentale, una porta privilegiata verso il Levante.

Spezie, sete, profumi, legnami pregiati transitavano così da Venezia diretti verso i continenti e in cambio essa riceveva oro e argento o materie prime e armi per alimentare il commercio con l'Oriente. A ciò si aggiungevano i preziosi prodotti locali, come i vetri di Murano e i tessuti ricavati dai panni grezzi d'importazione. Il mercato di Rialto divenne il fulcro di questi intensi traffici e Venezia divenne una delle più importanti potenze commerciali mondiali.

Sulla base di questa stessa ricchezza mercantile si fondavano poi le fortune del Patriziato veneziano. Non a caso il declino stesso della Repubblica finì per coincidere col declino dei commerci.

Era realmente la fine di un modello e di un'epoca, in quanto l'economia municipale, la quale era centrata sull'esportazione di alcuni prodotti dominantiche godevano del favore di bassi costi transizionali e dei vantaggi offerti dalla posizione strategica dello scalo veneziano, aveva cessato di esistere in seguito all'apertura delle nuove rotte marittime attorno all'Africa. La conseguenza principale fu lo spostamento dell'asse commerciale dal mar Mediterraneo all'oceano Atlantico.


L'arte veneziana nel 1700.


Il diciottesimo secolo è il periodo di maggior sfarzo, dove Venezia è la capitale mondiale della cultura e si gode e alimenta di arte, di musica, di agi, di fasti e di ricchezze.

In seguito alla Rivoluzione Scientifica, si superò il dualismo tra fede e ragione (a favore di quest'ultima) e si arrivò a mutamenti culturali, sociali, economici e politici. Il '700 è un secolo di grande forza intellettuale, si parla, infatti, del secolo dei lumi cioè il contrasto tra la chiarezza della ragione e l'oscurità dell'ignoranza. In arte tutto ciò significa l'opposizione al barocco e ai suoi eccessi e il recupero della leggerezza della natura e della vita. Si sviluppano due correnti artistiche principali, in altre parole il Neoclassicismoe il Rococò.Ciò che contraddistinse lo stile artistico di quegli anni fu l’adesione ai principi dell’arte classica, principi di armonia, equilibrio, compostezza, proporzione, serenità i quali erano già presenti nell’arte degli antichi greci e degli antichi romani. Accanto a queste due correnti artistiche si sviluppa il Vedutismo che è un vero e proprio metodo "tecnico" di dipingere.

Il Vedutismo si sviluppa a Venezia e prende il nome dalle "vedute" paesaggistiche sia naturali che cittadine che vengono raffigurate.

In effetti, già dai tempi antichi, gli artisti erano soliti dipingere paesaggi, la differenza con il Vedutismo è che il paesaggio è soltanto lo sfondo dell'azione umana, tanto che a volte viene dipinto dall'artista in funzione dell'uomo e non della natura. Con il Vedutismo per la prima volta il paesaggio viene rappresentato in maniera oggettiva e “scientifica”. Ciò ci fa capire come il secolo dei "lumi" abbia influenzato gli artisti, che cambiano il loro approccio con la realtà circostante.


Giambattista Tiepolo (1696-1770), cittadino della Serenissima, fu il più virtuosistico pittore di tutti i tempi. Fu uno dei massimi esponenti del Rococò, e un maestro per quanto riguarda la decorazione monumentale. Egli viaggiò per tutto il continente, dimostrando di saper adattare la propria arte alle tendenze artistiche dei paesi in cui si trovava a lavorare. Tiepolo sviluppò un proprio stile illusionistico e decorativo e preferiva le tecniche pittoriche che consentivano di dare luminosità ai suoi dipinti. Grazie ai suoi primi lavori e alla notevole capacità di lavorare con la luce, creando ambientazioni fastose e dai colori accesi, Giambattista Tiepolo riscosse quasi da subito un gran successo, ricevendo numerose commissioni nella Repubblica di Venezia.


Giovanni Battista Casanova(1730-1795) e Francesco Casanova (1727-1803) nacquero a Venezia, e furono due grandi pittori italiani.

Giovanni Battista non aveva un talento creativo ma preferiva copiare dal vero, fare ritratti o copiare vecchi maestri. Sapeva rappresentare inoltre con maestria scene mitologiche e allegoriche secondo il gusto del suo tempo. La sua abilità tecnica e le sue conoscenze teoriche lo portarono all'insegnamento e in questa veste ha dato il meglio di sé.

Al contrario Francesco dedicò interamente la sua vita alla pittura. Era specializzato in scene di battaglia e nel 1771 espose due tele dedicate alla Guerra dei trent'anni, la Battaglia di Freiburg e Battaglia di Lens.





"Battaglia di cavalleria"

Francesco Casanova.

In campo musicale operò il veneziano detto "Il Prete Rosso" (per il suo colore di capelli) Antonio Vivaldi(1678-1741), compositore e violinista italiano ed esponente di spicco del tardo barocco veneziano.


Era considerato il musicista più influente della sua epoca, poiché rivoluzionò radicalmente il concerto, soprattutto di tipo solistico.

Le sue composizioni più note sono i quattro concerti per violino conosciuti come Le quattro stagioni.

Avvenimenti del 1700.


1700: il secolo si apre con la guerra di successione spagnola. Venezia mantiene la sua neutralità, ma truppe francesi e austriache compiono continue improvvise incursioni armate nel territorio veneto.

1713: Pace di Utrecht e fine dei domini spagnoli in Italia. Venezia vi partecipa ribadendo la propria neutralità internazionale, ma incassa la fine dell'appoggio spagnolo.

1714:avvenne l'ennesima guerra contro i Turchi e la perdita di diversi possedimenti e isole nell'Egeo.

1718: con il Congresso di Passarowitz, Venezia, umiliata, fu costretta a cedere ai Turchi quasi tutti i suoi possedimenti. Lo 'Stato da Mar' è ormai ridotto alle coste dalmate.

1719: l'Austria istituisce a Trieste il 'Porto Franco', è un duro colpo per la marineria veneziana poiché Venezia non è più la padrona dell'Adriatico: teme la concorrenza commerciale con Trieste.

1720-1770: Giambattista Tiepolo opera a Venezia.

1741: E' l'anno in cui il commediografo Carlo Goldoni mette in scena le sue opere.

1755: Giacomo Casanova finisce ai 'Piombi' (la prigione dogale); è il protagonista di una leggendaria fuga, trionfo di un mito che viene ancora celebrato dopo 250 anni.

1752-1789: La seconda metà del Settecento è caratterizzata da avvenimenti artistici e Venezia è continuamente un turbinio di feste e visite turistiche da parte di nobili e aristocratici. E' anche la meta obbligatoria del Gran Tour in Italia.

Nel 1789:viene eletto doge Lodovico Manin. E' l'ultimo condottiero della millenaria repubblica.





Germana Strano e Eleonora Verdirame

La caduta della Serenissima



La caduta della Serenissima



L'episodio si inquadra nell'ambito degli sconvolgimentipolitici prodotti dalla Rivoluzione francese e dalle guerre rivoluzionariefrancesi, scoppiate con l'entrata in guerra dell'Austria il 20 aprile 1792. La decapitazionedel re di Francia Luigi XVI, il 21 gennaio 1793, spinse numerosi stati europeia riunirsi nella Prima coalizione, con l'intento di reprimere il fenomenorivoluzionario.
Il pretendente al trono di Francia, il conte di Lilla LouisStanislas Xavier, si riparò per un periodo, nel 1794, a Verona, ospite dellaRepubblica di Venezia. Il fatto provocò le vive proteste dei rappresentantifrancesi, tanto che il diritto d'asilo fu revocato e, il 21 aprile, Louislasciò Verona. L'allontanamento di Luigi spinse inoltre molte corti europee amanifestare il proprio disappunto al governo veneziano.Nel 1795 la Francia posefine all'epoca del Terrore e instaurò il governo di un Direttorio, chepianificò una grande offensiva a tenaglia contro le forze della coalizione: unattacco principale avrebbe investito da ovest gli Stati del Sacro RomanoImpero, mentre una spedizione di disturbo avrebbe colpito gli austriaci e iloro alleati da sud, attraverso l'Italia settentrionale.
La conduzione della campagna d'Italia fu affidata al giovanee promettente generale Napoleone Bonaparte (aveva allora ventisette anni).Questi nell'aprile 1796 attraversò con quarantacinquemila uomini le Alpi perscontrarsi con le forze austro-piemontesi. La vittoriosa campagna travolse ilRegno di Sardegna e il Ducato di Milano, controllato dagli Imperiali. Il 9maggio l'arciduca Ferdinando, governatore di Milano, si riparò con la famigliaa Bergamo, in terra veneziana. Sei giorni dopo, il 15 maggio, Napoleone entrò aMilano, costringendo contemporaneamente Vittorio Amedeo III di Savoia a firmarel'umiliante pace di Parigi, mentre gli asburgici ripiegavano nella difesa delprincipato vescovile di Trento. Il 17 maggio anche il Ducato di Modena dovetteaccettare la firma di un armistizio.
Nel corso del conflitto la Repubblica di Venezia avevamantenuto una posizione di neutralità, ma i suoi territori si trovavano aquesto punto nel pieno della direttrice d'avanzata dell'esercito francese indirezione di Vienna, dopo che la Francia aveva denunciato il 20 maggiol'accordo armistiziale, riprendendo le ostilità.
All'avvicinarsi dell'esercito francese, già il 12 maggio 1796il Senato della Serenissima aveva istituito un Provveditore generale per laTerraferma, con l'incarico di sovrintendere a tutti i magistrati delleprovincie.Ma lo stato delle difese era disastroso: scarsi gli armamenti,cattiva la manutenzione delle fortificazioni. Le terre della Lombardia veneta furonopresto invase dalle masse di profughi in fuga dalla guerra, dalle truppeaustriache sbandate o in fuga, cui si aggiunsero in breve le primeinfiltrazioni di contingenti francesi. Giunse infine in città lo stessoNapoleone, portando una proposta di alleanza tra la Francia e Venezia, cui perònon fu data risposta.
Sia il governo sia le autorità di terraferma, inconsiderazione del cattivo stato delle difese, opposero una blanda resistenzaall'attraversamento del territorio veneto da parte degli austriaci in fuga.Venezia oppose però un fermo diniego alle richieste dell'ambasciatore imperialedi fornire, seppur segretamente, viveri e magazzini alle forze asburgiche. Inbreve, comunque, la situazione si fece critica per la Repubblica: non solo laLombardia, ma lo stesso Veneto erano minacciati. Prima il comandante in capoaustriaco, generale Beaulieau, si impadronì con l'inganno di Peschiera, poi, il29 maggio, la divisione francese del generale Augereau entrò a Desenzano. Lanotte tra il 29 e il 30 maggio Napoleone attraversò in forze il Mincio,mettendo in fuga il nemico verso il Tirolo. Alle lagnanze della Serenissima,che per bocca del provveditore generale Foscarini lamentava i danni portatidalle truppe francesi al loro passaggio, Bonaparte rispose minacciando dimettere a ferro e fuoco Verona e marciare su Venezia. Egli ribatteva, infatti,che la Repubblica aveva favorito l'Imperatore, non dichiarando guerra dopo ilfatto di Peschiera, e i nemici della Francia, avendo dato ospitalità alpretendente francese Luigi.
Il 1º giugno il provveditore Foscarini, desideroso di nonprovocare ulteriormente Napoleone, acconsentì all'ingresso dei soldati francesiin Verona. Le terre di Venezia divennero così campo di battaglia tra gliopposti schieramenti, mentre in molte città si venne progressivamente a creareuna difficile condizione di convivenza tra le truppe veneziane, gli occupantifrancesi e la popolazione locale.
Nelle convulse settimane dall’11 maggio al 1° giugno 1796furono poste le premesse e per un certo verso anche recitata la prova generaledella catastrofe che un anno più tardi avrebbe travolto Venezia. La crisicausata dall'ingresso delle truppe francesi e austriache nei Domini di SanMarco fu una logica conseguenza sia dei limiti strutturali della linea politicache la Serenissima aveva adottato nei mesi e negli anni precedenti, sia, in particolare,della sua incapacità di reagire con prontezza e flessibilità ad una situazionenon solo in rapida e sorprendente evoluzione, ma che usciva anche dagli schemimentali di una classe dirigente fossilizzata. Il clamoroso conflitto tra laWeltanschauung politico-militare e il comportamento del futuro Napoleone e leaspettative e i calcoli di un regime aristocratico in costante debitod'ossigeno appare il più sicuro bandolo per districare la matassa dei confusiavvenimenti di quelle settimane decisive.
Di fronte all'impellente minaccia, il Senato ordinò ilrichiamo della flotta, la creazione di un Provveditore generale alle Lagune eai Lidi per provvedere alla difesa del Dogado e inoltre furono richieste nuovetasse e contributi volontari per provvedere al riarmo dello Stato. Infine siordinò all'ambasciatore a Parigi di protestare presso il Direttorio per laviolazione della neutralità. Contemporaneamente rimostranze furono sollevate aVienna per aver portato la guerra nella Terraferma.
Il 5 giugno, a Brescia, i rappresentanti del re di Napoli eFerdinando, firmarono l'armistizio con Napoleone. Il 10 giugno giunse in fuga aVenezia il Duca di Parma Ludovico I di Borbone. Il 12 giugno Napoleone invaseanche la Romagna, appartenente allo Stato Pontificio, che il 23 giugno dovetteaccettare l'occupazione delle legazioni settentrionali. I francesi acquisironocosì il controllo del porto di Ancona. A quel punto Venezia sembrava, infatti,ormai dare per perduta la Terraferma.
Verso la metà di luglio le truppe francesi venneroacquartierate nelle città di Crema, Brescia e Bergamo, per consentire laseparazione tra francesi e Imperiali, giunti frattanto ad una tregua. Alcontempo trattative diplomatiche cercavano di spingere Venezia ad accettareun'alleanza congiunta con la Francia e l'Impero ottomano contro la Russia,rompendo la neutralità. La notizia però dei preparativi del generale vonWurmser per una controffensiva austriaca dal Tirolo, spinsero la Repubblica arespingere ufficialmente, con lettera ducale del 22 luglio, le propostefrancesi. Il 31 luglio Napoleone occupò il castello di Brescia.
Intanto, il 29 luglio il generale von Wurmser iniziò lacontroffensiva austriaca, scendendo dal Trentino lungo le rive del lago diGarda e il corso del Brenta, tra il territorio veneto e quello mantovano. Leoffensive austriache vennero però fermate rispettivamente a Lonato del Garda (3agosto) e a Castiglione delle Stiviere, dove, nella battaglia combattuta il 5agosto Würmserfu sconfitto e costretto a ripiegare su Trento. Riorganizzatosi,Würmser ritentò l'assalto marciando questa volta lungo il corso dell'Adige, mal'8 settembre gli Imperiali vennero nuovamente e duramente sconfitti nellabattaglia di Bassano.
Nel corso dell'autunno e dell'inverno la presenza francese inItalia si andò rapidamente consolidando, tanto che il 15 e 16 ottobre furonocostituite la Repubblica Cispadana e la Repubblica Transpadana.Contemporaneamente, nella Terraferma Veneziana i soldati napoleonici preseroprogressivamente il controllo del sistema difensivo, prendendo il controllo dicittà e fortezze.
Il 29 ottobre gli austriaci tentarono una nuova offensiva. Alcomando del generale Alvinzi von Berberek attraversarono il Tagliamento,superando il Piave il 2 novembre e raggiungendo, il 4, il Brenta. Sconfitti ifrancesi il 6 novembre a Bassano, due giorni più tardi l'armata asburgicaentrava a Vicenza. La battaglia del 12 novembre a Caldiero e la battaglia delponte di Arcole (17 novembre) bloccarono, però, l'avanzata austriaca. Infine labattaglia di Rivoli Veronese, il 14 gennaio 1797, ristabilì la situazione afavore di Napoleone.
Tutti questi fatti spinsero infine i magistrati veneziani diTerraferma ad autorizzare la parziale mobilitazione delle cernide el'apprestamento difensivo di Verona. Gli occupanti francesi furono inizialmentecostretti a salvaguardare le apparenze, acconsentendo a non interferire con leforzeveneziane intente a riprendere il controllo delle città della lombardiaveneta. In questo sostenute dall'accordo stipulato il 1º aprile, con cuiVenezia accondiscendeva al pagamento di un milione di lire al mese a Napoleoneper il finanziamento della sua campagna contro l'Austria. In tal modo laRepubblica sperava, infatti, di favorire al contempo una rapida conclusione delconflitto, con il conseguente sgombero degli occupanti, e l'acquisto di unacerta libertà d'azione contro i rivoluzionari lombardi.
Di fronte però al diffondersi delle sollevazioni popolari afavore di Venezia e alla rapida avanzata delle truppe venete, i francesi furonocostretti a soccorrere i giacobini lombardi, svelando definitivamente le lororeali intenzioni. Il 6 aprile un drappello di cavalleria veneziana fu fattoprigioniero a tradimento dai francesi e condotto a Brescia. L'8 aprile ilSenato fu informato di scorrerie compiute fin alle porte di Legnago darivoluzionari bresciani dotati di divise francesi. Il 9 aprile un proclamanapoleonico invitò la popolazione della Terraferma ad abbandonare il governo diVenezia, che si era sino a quel momento premurato della sicurezza della solacapitale. Il 10 aprile, quindi, i francesi, dopo aver catturato una naveveneziana carica di armamenti sul Garda, accusarono Venezia di aver rotto laneutralità. Il 12 aprile fu ordinata poi la massima vigilanza nei porti venetiper la sempre più frequente presenza di navi da guerra francesi. Il 15 aprile,infine, l'ambasciatore di Napoleone a Venezia informò la Signoria dell'intenzionefrancese di sostenere e promuovere le rivolte contro il tirannico governo dellaRepubblica.
Il 17 aprile 1797 a Verona la situazione precipitò. Lapopolazione e parte delle truppe venete acquartierate, stanche dell'oppressionee dell'arroganza dei francesi, insorsero. L'episodio, noto come pasqueVeronesi, costrinse in breve le truppe d'occupazione alla difensiva,spingendole a rinchiudersi nei forti posti a presidio della città.
Nonostante poi fosse stata nuovamente rinnovata laproibizione all'ingresso di navi da guerra straniere nelle acque di Venezia,avvisando prontamente del fatto la Francia, il 20 aprile la fregata francese LeLibérateur d'Italietentarono di forzare il porto del Lido, nel probabiletentativo di saggiarne le difese. In risposta, le potenti artiglierie del fortedi Sant'Andrea distrussero la nave, uccidendone il comandante. Il governo dellaRepubblica non seppe tuttavia sfruttare la situazione di momentaneo vantaggioe, sperando ancora di evitare un conflitto aperto, seppure a prezzo dellaperdita dei possedimenti terrestri, si rifiutò di mobilitare l'esercito e diinviare rinforzi a Verona. Questa, infine, il 24 aprile fu costretta adarrendersi.
Nella stessa occasione Napoleone accusava Venezia di averrifiutato l'alleanza con la Francia, che le avrebbe consentito lariacquisizione delle città ribelli, al solo scopo di poter mantenere i propriuomini in armi e poter così in caso tagliare la via della ritirata ai francesiin caso di sconfitta.
La caduta di Verona fu seguita, senza alcuna prova di forza,da quelle di Vicenza e di Padova. Il 29 aprile le truppe francesi raggiunsero ibordi della laguna. Anche se sarebbero trascorsi parecchi giorni prima che lademocratizzazione della Terraferma fosse completata.
Nei giorni successivi, l'armata napoleonica procedette quindialla definitiva occupazione della Terraferma, arrivando ai margini dellalaguna. Il 30 aprile una lettera di Napoleone, ormai attestatosi a Palmanova,informò la Signoria dell'intenzione da parte del generale di modificare laforma di governo della Repubblica, pur offrendosi di mantenerne la sostanza.L'ultimatum concesso era di quattro giorni.
Nonostante tutti i tentativi di giungere a una conciliazione,tanto che il 1º maggio Napoleone, ormai attestatosi a Marghera, era statoinformato dell'intenzione veneziana di rivedere l'ordinamento costituzionale insenso più democratico, il 2 maggio giunse ugualmente la dichiarazione di guerrada parte francese. Venezia nell'ennesimo tentativo di placare Napoleone il 4maggio accettò le richieste francesi, accondiscendendo all'arresto delcastellano di Sant'Andrea di Lio, responsabile dell'affondamento del LeLibérateur d'Italie.
L'8 maggio il Doge si dichiarò pronto a deporre le insegnenelle mani dei capi giacobini, invitando nello stesso tempo tutte lemagistrature allo stesso passo. Tutto questo nonostante il consigliere ducaleFrancesco Pesaro lo spronasse a fuggire a Zara, possedimento ancora sicuro.Venezia d'altra parte disponeva ancora della propria potente flotta e dei fedelipossedimenti istriani e dalmati, oltre che delle intatte difese della città edella laguna. Nel corpo della nobiltà serpeggiava però il terrore di unapossibile rivolta popolare. L'ordine diramato fu quindi quello di smobilitarele fedeli truppe di Schiavoni presenti in città. Lo stesso Pesaro sfuggìall'arresto, ordinato per ingraziarsi Napoleone, lasciando Venezia.
Se dal punto di vista tecnico-militare Venezia potevacertamente sostenere un assedio, anche se la situazione non era cosìconfortante come si è comunemente preteso e si addensavano i segnali di uncollasso psicologico, oltre che del nucleo dirigente, anche della ῾base'patrizia e cittadina,tuttavia l'opzione militare non solo presentava non pochirischi, ma, soprattutto, poteva colpire a morte, come aveva sottolineatoPesaro, gli interessi del corpo aristocratico veneziano in Terraferma.
Il 1° maggio 1797 Napoleone dichiarò guerra alla Serenissimache cedette di colpo senza nemmeno un sussulto d’orgoglio. Eppure potevadifendersi: c’erano in città 11.000 fedelissimi dalmati (gli Schiavoni), 3.500soldati veneti,800 bocche da fuoco, 206 imbarcazioni di guerra. Probabilmentecon quest’atteggiamento di totale remissività il patriziato pensava di salvarele sue vastissime proprietà terriere.
Nella seduta del 12 maggio 1797, il Doge e i magistratideposero le insegne del comando, mentre il Maggior Consiglio abdicò e dichiaròdecaduta la Repubblica. Il potere di governo passò a una Municipalitàprovvisoria posta sotto il controllo del comando militare francese, nel terroregenerale di rivolta suscitato dalle salve di saluto dei fedeli soldati"schiavoni" (istriani e dalmati), che obbedirono all'ordine dievacuazione impartito per evitare scontri.
 
Napoleone entrò così a Venezia senza quasi che fosse sparatoun solo colpo, se non una salva d'artiglieria ordinata dal Forte di Sant'Andreache distrusse la fregata francese "Le Libérateur d'Italie" mentretentava di forzare l'ingresso in laguna. Poco dopo anche l'Istria e laDalmazia, ormai caduta la madrepatria, si consegnarono ai francesi. Finivacosì, senza dignità, una storia gloriosa durata quattordici secoli.

Davide Sapienza