door Marika Palmieri 2 jaren geleden
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Nonostante il pensiero di Leopardi non sia organico e completo, nelle sue opere sviluppa sempre un pensiero filosofico. Il pessimismo di Leopardi, ossia la sua concezione dell’esistenza, ha un evoluzione nel corso delle sue vicissitudini. Distinguiamo due fasi:
• IL Pessimismo storico
L’evoluzione del pensiero di Leopardi ha inizio nel 1817, quando il poeta, intervenendo al dibattito classico-romantico, riflette sul contrasto fra natura (aspetto della poesia classica) e ragione (aspetto che attribuiva alla poesia romantica). In questa fase iniziale la natura(=antichità) è causa di felicità, in quanto concepita come “madre benevola”, permette agli uomini una visione pura e incontaminata delle cose, dove tutto era spontaneo e ingenuo, dove sono vivi i nobili sentimenti e le azioni eroiche. La ragione (=età moderna) è causa di infelicità, poiché in quanto razionale, distrugge le illusioni create dalla natura. Leopardi quindi sosteneva che le civiltà antiche erano felici grazie alla loro armonia con le leggi di natura, mentre in età moderna non fu più così in quanto l’uomo si è allontanato dallo stato di natura a favore del progresso. L’infelicità è condizione dell’uomo moderno, mentre la felicità è condizione dell’uomo antico.
• Pessimismo cosmico
La malattia agli occhi e il fallito tentativo di fuga da Recanati, indussero il poeta a riflettere sul dolore dell’esistenza. Leopardi modifica radicalmente il suo pensiero: la natura non è più madre ma matrigna, poiché prima inganna i suoi figli illudendoli che tutti sia possibile e realizzabile, quindi che l’uomo vive in una condizione di felicità; ben presto tali speranze vengono annientate dalla ragione, mostrando la verità dell’esistenza, fatta di dolore e sofferenza. Durante il periodo del silenzio poetico Leopardi inizia ad avere una visione materialistica e meccanicistica della realtà. Questo profondo pessimismo portò Leopardi a modificare nuovamente l’idea che aveva del rapporto natura-ragione. Ora la natura appare al poeta come una implacabile forza creatrice e distruttrice, in quanto genera gli uomini solo per lasciarli invecchiare morire fra mille sofferenze, non curante della loro felicità. È questo il pessimismo cosmico che nasce da una legge di natura a cui l’uomo è sempre stato sottoposto.
Secondo la concezione Leopardiana l’uomo è in condizione di felicità quando raggiunge il piacere infinito. L’uomo per sua natura non desidera singoli piaceri, ma piacere infinito. Ma questo desiderio non può essere mai soddisfatto interamente, per i limiti stessi della vita umana. Alla teoria del piacere si collega anche il concetto di noia, ossia il senso di insoddisfazione di fronte a tutto. L’uomo è in condizione di felicità quando è in attesa di qualche cosa oppure quando supera una situazione dolorosa (la quiete dopo la tempesta). Passato anche questo momento temporaneo non esiste la felicità vera e propria. Solo attraverso l’immaginazione e il ricordo l’uomo può abbandonarsi al piacere.
Con l’allontanamento definitivo da Recanati e la solidarietà di Ranieri Leopardi inizia a maturare un atteggiamento titanico. Acquista la consapevolezza della reale condizione della vita dell’uomo; concepì l’esigenza di promuovere una società civile, fondata sulla solidarietà e l’amore fra gli uomini. Invita gli uomini a prendere coscienza delle leggi meccanicistiche ed accettare questa dolorosa realtà come base della convivenza civile, proponendo di far fronte alle sofferenze aiutandovi gli uni con gli altri unendovi in una “social catena”.
Questa operetta è stata scritta da Leopardi nel 1827 e parla dell opportunità del suicidio. Essa vede come protagonisti due filosofi della scuola platonica: Plotino e Porfirio.
Plotino inizia il dialogo dicendo che il suo allievo Porfirio vorrebbe compiere giustizia contro la sua esistenza suicidandosi e lo invita a confidarsi con lui per capire se questo gesto è giusto o sbagliato.
Porfirio allora dice che tutti i sentimenti della vita, compreso il dolore, sono vani e per questo crede che per porre fine a tutto ciò sia necessario il suicidio.
Quindi la morte rappresenta una medicina per tutti i mali dell'uomo, e per questo esso non deve averne timore, come avviene per la maggior parte degli uomini.
Plotino afferma quindi che, se tutti gli uomini tentassero il suicidio, non verrebbe garantita la continuità della specie e per questo crede che sia contro natura.
Porfirio poi sostiene che come la natura ha dato all'uomo l'odio e il timore per la morte, la natura propende per la felicità che è irraggiungibile, quindi è lecito per l'uomo abbreviare la vita piena di sofferenza con la morte.
Poi Plotino afferma che è inevitabile che l'uomo nella vita abbia dei patimenti e che il dolore accompagnerà l'individuo nel corso di tutta la sua vita e il piacere verrà raggiunto solo inconsapevolmente.
Questo si ricollega alla teoria del piacere secondo la quale il desiderio illimitato e infinito cessa solo con la morte.
Per questa ragione Porfirio afferma che senza speranza di un certo fine, l'esistenza umana non ha alcun senso.
Plotino risponde dicendo che il suicidio mira ad annullare i dolori personali, ma accentua i dolori dei propri cari e conclude dicendo che la condivisione dei propri dolori con altri aiuta a sedarli.
Un'altra poesia che si ricollega a questa è il Canto Notturno del Pastore errante dell'Asia dove si dice che la vita del pastore è continua sofferenza che tende solo alla morte.
Dalle Operette Morali, componimento che esprime al meglio il pessimismo cosmico leopardiano.
Un islandese è insofferente e infelice e inizialmente crede che questo suo stato d’animo sia dovuto ai mali rapporti con i vicini. Per questo motivo decide di isolarsi ulteriormente.
Ma ancora un a volta è insofferente e attribuisce la sua infelicità al clima.
In casa è costretto a stare vicino al fuoco ma qui soffre per l’ambiente secco e pieno di fumo, all’esterno invece il clima è troppo rigido.
Decide dunque di girare il mondo convinto di trovare un luogo adatto a lui.
Ma trova luoghi troppo caldi, troppo freddi, troppo piovosi, troppo freddi, con venti forti, terremoti.
Arrivato in Africa, incontra la Natura (la quale ha sembianze di donna enorme appoggiata a una montagna) a cui rivolge domande esistenziali circa l’uomo, dopo averle mostrato la sua incomprensione e contraddizione verso il suo comportamento (della Natura).
La paragona inoltre a un ospite pazzo che costringe colui che ospita a stare in luoghi scomodi, lo tiranneggia e lo danneggia, impedendogli di andare via.
Quindi l’islandese chiede alla Natura il senso del suo operare contro i viventi ma lei asserisce di essere al di là del bene e del male e di operare seguendo un ciclo di conservazione ben al di sopra delle vite.
Ma quando alla fine l’islandese chiede a chi giova questa vita infelice dell’universo, conservata con il danno e con la morte delle cose che lo compongono.
1. passano due leoni e lo divorano.
2. una tempesta di sabbia lo seppellisce rendendolo una mummia da esposizione.
Quest’opera fu scritta tra il 21 e il 30 maggio 1824
Leopardi si ispira alla storia di Jenni Voltaire in cui si parla dei flagelli a cui sono sottoposti gli islandesi.
- Islandese: simbolo dell’infelicità dell’uomo.
- Emerge la cultura cosmopolita di Leopardi (Vasco de Gama, isola di Pasqua, Lapponia, Tropici…)
- È ateo ma conosce bene i testi sacri.
- È nichilista: tutto è nulla ( non esiste nulla di trascendentale ma tutto è immanente)- (N.B. nichilismo: atteggiamento anarchico di chi nega i valori della vita e propone l’abbattimento dell’ordine costitutivo.)
- Il duplice finale si ricollega a questa teoria per cui “nulla si crea, nulla si distrugge”…infatti…
Mummia: oggetto di studio, serve agli studiosi.
Mangiato dai leoni: se mangiato è utile per la sopravvivenza di altre specie.
La canzone “Ad Angelo Mai” fa parte del gruppo delle canzoni civili, scritte da Giacomo Leopardi. L’intento è quello di suscitare negli italiani l’amor di patria, grazie al ricordo della loro passata grandezza. Anche questa canzone, come le altre canzoni civili, prende il via da un fatto di cronaca.
Il Leopardi, ammiratore del Mai, nel 1820 compose la canzone. Il poeta è entusiasta del ritrovamento dei frammenti del trattato e si rallegra alla notizia del ritrovamento: per merito del dotto filologo, Cicerone e gli altri scrittori antichi tornano a far sentire la loro voce dopo secoli di silenzio.
La canzone si divide in tre parti:
Nella prima parte (vv. 1-55) il Leopardi esalta il Mai: egli riscopre le opere degli antichi padri, i quali lasciano quasi il sepolcro, per vedere se all’Italia, oggi, piace essere ancora viva, dopo tanto tempo.
Nella seconda parte (vv. 56-175) il poeta fa una nostalgica rievocazione del Rinascimento, che per lui va dalla morte di Dante all’Alfieri.
Nell’ultima e terza parte (vv. 175-180) il poeta, rivolgendosi ad Angelo Mai, lo esorta a continuare le sue ricerche con la speranza o di spingere gli Italiani a nobili azioni o almeno, a vergognarsi della loro abiezione.
La canzone è importante per i ripetuti riferimenti autobiografici, che denotano lo stato d’animo di delusione e di sconforto del poeta: vede crollare le illusioni e vede la propria vita minacciata dal tedio e dal senso del nulla.
Giacomo Leopardi scrive la canzone nel 1820, dopo gli avvenimenti del 1819, culminati nel fallito tentativo di fuga dalla casa paterna. Nel canto le allusioni alle sue frustrazioni sono frequenti. In particolare, quando parla dell’invidia, dell’odio, dell’incomprensione della gente verso gli ingegni sensibili.
Anche le tre figure di poeti che occupano la parte centrale della canzone hanno risvolti autobiografici. L’Ariosto con la sua fervida fantasia, rispecchia la fase giovanile del poeta. il Tasso anticipa nelle sue vicende dolorose l’analogo destino di dolore del poeta. L’Alfieri invece rispecchia il titanismo romantico del poeta.
Infine nella figura di Cristoforo Colombo il Leopardi ha proiettato una sua idea per superare il male di vivere: la vita attiva, l’ardimento e il rischio delle grandi imprese, che, mentre liberano lo spirito dal pensiero, che porta alla scoperta dell’arido vero, del nulla, servono, in qualche modo, a dare uno scopo e un significato alla vita.
Canzone "gemella" di ALL'ITALIA, fu composta a Recanati tra il settembre e l'ottobre 1818, e pubblicata fino all'edizione dei CANTI del 1831 col titolo che si prepara: venne infatti occasionata da un manifesto del luglio 1818 in cui veniva proposta l'erezione di un monumento a Dante, poi scoperto nel 1830.
Nella Canzone, di laboriosissimo stile, Leopardi lamenta, come nella Canzone precedente, la sorte dell'Italia sotto il dominio straniero.
E come nella Canzone precedente, Leopardi deplora la sorte dei giovani italiani caduti nella gelida steppa russa durante la campagna napoleonica.
L’immagine finale condensa l’amara delusione leopardiana per l’Italia contemporanea, tanto diversa dal suo glorioso passato: se continuerà ad essere abitata da uomini “codardi”.
All’Italia è una lirica civile composta da Leopardi nel 1818 a Recanati e pubblicata a Roma nel 1819.
La poesia è ispirata a tematiche politiche e patriottiche: Leopardi paragona la grandezza dell’Italia nei tempi antichi con la sua condizione di sottomissione nel presente.
Nella prima strofa, Leopardi si rivolge direttamente alla patria lamentando il fatto di non vedere più la gloria che l’Italia aveva nei tempi antichi (la gloria non vedo,/non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi/i nostri padri antichi). Il poeta rappresenta l’Italia come una bellissima donna fatta prigioniera, ferita, piangente.
Nella seconda strofa il rammarico per la situazione presente continua, e Leopardi si chiede chi sia il responsabile della decadenza attuale dell’Italia e perché nessuno la difenda: in uno slancio patriottico, chiede lui stesso di ricevere armi per battersi per la propria patria, volendo così incitare tutti gli italiani a difenderla.
Nella terza strofa il poeta rimprovera il fatto che molti giovani italiani siano mandati a combattere guerre straniere per altre nazioni, invece che difendere la propria patria.
nella strofa successiva Leopardi rimpiange le epoche in cui i cittadini non vedevano l’ora di andare a combattere per la patria: l’esempio che porta è quello del sacrificio degli spartani alle Termopili per fermare l’avanzata dei persiani, nel 480 a.C.
Nelle ultime tre strofe a parlare non è più Leopardi ma Simonide di Ceo, poeta greco, che celebra quell’episodio e il coraggio dei giovani spartani Si sofferma sulla dura sconfitta che riuscirono a infliggere ai persiani prima di soccombere. Nell’ultima strofa, in particolare, si sottolinea la funzione della poesia, che contribuisce a dare immortalità agli eroi, e Simonide si augura di vivere come loro in eterno nella memoria grazie alla poesia.
Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani
è un saggio incompiuto, rappresentativo del suo tempo, scritto da Leopardi nel 1824, e rimasto inedito fino al 1906. Il testo comparve quell’anno negli archivi della Biblioteca Nazionale di Napoli. Un’opera di sorprendente attualità che Alberto Asor Rosa ha definito uno dei più grandi libri che siano mai stati scritti sulla nostra identità nazionale. È una lunga riflessione sul tema e sul concetto di nazione, che nacque dalle considerazioni dell’idea di patria dei grandi intellettuali del Risorgimento. Nel Discorso Leopardi approfondisce le condizioni storiche della sua epoca, analizza e raffronta le analogie e le differenze con le altre nazioni europee, e delinea una vera e propria riforma politica. La considerava necessaria, avendo sullo sfondo la grande trasformazione economica in atto in Germania, Francia e Inghilterra: era convinto che la stessa avrebbe potuto condurre anche l’Italia nella modernità del tempo. A riguardo, il grande poeta si chiedeva come mai, a differenza degli altri paesi europei, vigesse in Italia una società di egoismi razionali e perché mai, il passeggio, gli spettacoli, e le Chiese erano le principali occasioni di società. Il suo modello di società civile avrebbe educato tutti al senso di uno Stato unitario.
a società stretta e il vincolo sociale sono tra i punti più importanti del suo Discorso. Le società strette (le classi dirigenti) fissano i buoni costumi e le virtù pubbliche (vincoli sociali) e definiscono gli interessi per la collettività, creando una società ben ordinata. Un mondo condiviso di cose, in mancanza di un’unità politica, comporta l’importanza a perseguirle da parte di ciascuno nel vivere la propria vita.
L’interesse pubblico, scrive Salvatore Veca nell’introduzione all’opera, presuppone per la sua definizione la circolazione di quella moneta sociale preziosa che è la fiducia. La filosofia dell’organizzazione del sociale espressa da Leopardi avrebbe condotto ad una piena libertà dell’individuo, per cui la sua teoria politica diverrà per alcuni studiosi, nel corso del Novecento, un teorema rivoluzionario se non proprio anarchico. Leopardi aveva già composto le Operette morali, non approvate dai suoi amici intellettuali, e il Discorso, scritto successivamente, non sarà altro che una conferma dei suoi pensieri, delle sue riflessioni, accresciuta dalle letture di de Tocqueville, Montesquieu e di Machiavelli. Leopardi intendeva la politica come una scienza e le sue meditazioni a riguardo delineano una filosofia etica appassionante sull’interesse pubblico e sull’utilità comune. Scrisse il Discorso a ventisette anni, nella sua casa di Recanati. Un’opera preziosa nella quale il giovane favoloso sostiene con impegno la civiltà e nella quale ha saputo descrivere alcuni tratti fondamentali della nostra cultura del passato e alcune delle cause dei nostri insuccessi.
Lo Zibaldone del Leopardi è un’opera vasta, immensa dal punto di vista nozionistico e in termini fisici (ben 4525 pagine!), scritta in un lasso di tempo ventennale da parte dell’autore e che raccoglie, in ordine sparso, vari e numerosi pensieri, spunti, pareri, riflessioni sulla propria poetica, vita e modo di intendere l’esistenza da parte dell’autore.
Nello specifico, i temi trattati sono: la religione cristiana, la natura delle cose, il piacere, il dolore, l'orgoglio, l'immaginazione, la disperazione e il suicidio, le illusioni della ragione, lo stato di natura del creato, la nascita e il funzionamento del linguaggio (con anche diverse annotazioni etimologiche), la lingua adamica e primitiva, la caduta dal Paradiso, il bene e il male, il mito, la società, la civiltà, la memoria, il caso, la poesia ingenua e sentimentale, il rapporto tra antico e moderno, l'oralità della cultura poetica antica, il talento, e, insomma, tutta la filosofia che sostiene e nutre la propria poesia. Va da sé che ci sia un filo di conduttore all’interno dell’opera che mostra anche l’evoluzione del pensiero leopardiano, che lo stesso autore avrà cura nel mostrarlo, riordinando ad un certo punto lo Zibaldone stesso e inserendo riferimenti a suoi pensieri precedenti, rendendolo nel tempo un’opera organica.
Come già detto, il significato del libro dato dallo stesso autore è quello di raccolta di pensieri, spunti tematici e filosofici, idee che andranno poi a maturare in altre opere, minori o maggiori (si pensi all’idillio “l’infinito”, il cui pensiero matura chiaramente all’interno dello Zibaldone).
Per una chiarezza migliore, lo Zibaldone può avere tre chiavi di lettura: