por Giancarlo Tonani 4 anos atrás
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I giochi psicologici, contrariamente alla definizione ludica, non sono esperienze piacevoli, ma costituiscono un tipo di interazione disfunzionale, fonte di sofferenza e di situazioni conflittuali, come tensioni, litigi, fino a separazioni dolorose. Mettere in atto un gioco psicologico, in base al modello dell'Analisi Transazionale, significa impostare le relazioni affettive su uno schema ripetitivo di comportamenti, la cui conclusione comporta sempre un'emozione negativa: rabbia, tristezza, impotenza, sconforto.
Le persone coinvolte si accorgono che questi sentimenti sono familiari, nel senso di averli provati molte altre volte e in circostanze diverse. Infatti, il medesimo gioco è riproposto in situazioni differenti, come il contesto lavorativo e quello sociale. All'interno del gioco la persona ricopre un ruolo e invita l'altro a impersonarne uno complementare.
A tal fine sceglie, inconsapevolmente, il partner tra coloro che sono in grado di interpretare un ruolo che possa intrecciarsi con il proprio.
Se ci si sofferma a osservare le coppie di amici e conoscenti, non è difficile individuare i ruoli ricoperti dai due partner all'interno della relazione.
Schema del gioco.
Lo schema del gioco secondo la teoria dell'Analisi Transazionale è il seguente:
Fase di apertura (GANCIO + ANELLO): il gancio è la comunicazione con cui s'invita l'altro a giocare, l'anello è la disponibilità dell'interlocutore a partecipare al gioco proposto. Metaforicamente "gancio + anello" rappresenta il processo con cui l'anello si appende al gancio. Prendendo come esempio il gioco: «Perché non... sì ma», la fase di apertura può essere: «Ho bisogno di un tuo consiglio», «Va bene... dimmi...».
Fase centrale (RISPOSTA): l'interazione prosegue in modo prevedibile e con tempi più o meno lunghi.
Seguendo l'esempio del gioco «Perché non... sì ma», la risposta consiste nella serie di suggerimenti forniti da un partner e respinti dall'altro: «Potresti fare questa cosa...», «Sì... ma... ci sarebbe quest'inconveniente».
Fase finale (SCAMBIO DEI RUOLI + SORPRESA): l'interazione è improvvisamente interrotta da un colpo di scena, in virtù del quale chi ha iniziato il gioco cambia il proprio ruolo (scambio dei ruoli), segnalando in questo modo la conclusione dello stesso. Nell'esempio citato «Perché non... sì ma», lo scambio dei ruoli concerne il momento in cui la Vittima che ha iniziato il gioco diventa Persecutore, screditando la capacità dell'altro di offrirle l'aiuto richiesto: «Ho capito, non vuoi aiutarmi!».
La sensazione di aver cambiato ruolo provoca nei due partner un momento di sorpresa. Entrambi, sebbene colgano il ripetersi dell'accaduto, rimangono stupiti chiedendosi «Cosa sta succedendo?».
Conclusione (TORNACONTO): al termine del gioco, ciascuno dei giocatori ottiene il suo tornaconto costituito da una "ricompensa psicologica": procurarsi sostegno, sentirsi riconosciuto, rimarcare la propria superiorità o l'incapacità dell'altro.
Ma la vittoria è solo apparente, in quanto è sempre accompagnata da un'emozione spiacevole o da un pensiero negativo («Non sono all'altezza», «Nessuno è capace di aiutarmi», «Non ne posso più...», «Non mi capisce...»).
Un processo comunicativo per essere definito gioco psicologico deve soddisfare alcune caratteristiche.
Berne, ritiene che i giochi siano "copioni di comportamento" appresi nell'infanzia, riprodotti da adulti e oscurati "dalle nebbie sociali".
Il meccanismo del gioco è infatti appreso nel corso dell'infanzia, quando il bambino mette in atto determinate strategie come mezzo per soddisfare i bisogni di attenzione e di riconoscimento.
Una volta acquisito, il gioco si consolida strutturandosi in uno schema "stimolo - risposta" e si dimenticano le motivazioni per cui è stato concepito, ragione per cui il gioco è inconsapevole.
Nel corso della vita adulta, il gioco prescelto sarà attivato come comportamento automatico nelle relazioni importanti.
La persona ricorre al gioco quando non si sente sufficientemente apprezzata dal partner o crede di non ricevere adeguata considerazione ed importanza. Per soddisfare queste esigenze ripropone, senza rendersi conto, quelle strategie che nell'infanzia erano state funzionali, ma che nel contesto presente risultano inappropriate.
Alla base dei giochi psicologici possono esserci molteplici ragioni:
Pertanto si gioca nel tentativo di soddisfare le proprie esigenze emotive, ma poiché nel gioco sono riproposte strategie superate, i reali bisogni rimangono insoddisfatti.
Tutte le persone possiedono i propri giochi, che ripropongono all'interno della relazione affettiva. Esiste tuttavia un confine, un grado d'intensità per cui il gioco da moderato e innocuo diventa disfunzionale e dannoso.
I giochi di lieve intensità generano screzi e discussioni, senza pregiudicare il benessere e l'armonia della relazione di coppia.
Il gioco disfunzionale invece è fonte di infervorati litigi, rivalse, rancori, ostinati silenzi, suscitando stati d'animo negativi in entrambi i partner.
Il legame può logorarsi al punto da condurre alla rottura o alla scelta di permanere in una relazione insoddisfacente. In alcuni casi il disagio si esprime in un sentimento di confusione, dovuto all'attivazione di un gioco "non complementare", per cui uno dei due membri della coppia non è disponibile a partecipare al gioco proposto dall'altro.
Ciò si può verificare nelle prime fasi di un nuovo rapporto affettivo, in cui la persona percepisce un'interazione sfuggente e l'allontanamento del partner, ma non comprende cosa stia accadendo. Infine, l'intensità del gioco può raggiungere livelli estremi, che possono spingersi fino al maltrattamento fisico, con gravi conseguenze emotive.
Il primo passo consiste nella consapevolezza dei giochi e del ruolo ricoperto all'interno di questi.
La consapevolezza del gioco è un valido strumento per evitarli.
Dinnanzi a un'interazione in cui si pensa «È successo di nuovo!», è utile cercare di identificare quali sequenze di comportamenti tendono a ripetersi e come si contribuisce alla loro realizzazione.
Il secondo passo comporta il rifiuto/interruzione del gioco.
Quando si riconosce che una determinata dinamica corrisponde a un gioco, è possibile rifiutarsi di entrare in quello proposto dall'altro, fornendo una risposta diversa rispetto alle aspettative di questi (non agganciando l'anello). Mentre, quando s'intuisce di aver innescato il meccanismo, questo può essere interrotto, attivando comportamenti diversi da quelli consueti, che consentano di retrocedere dall'escalation.
Ad esempio nel gioco «Perché non... Sì ma...», il giocatore che offe consigli può fornire una risposta del tipo: «Non so cos'altro dirti!».
Mentre il secondo giocatore può uscire dal ruolo ricoperto, con una reazione del tipo: «Grazie, rifletterò su quello che mi hai suggerito».
È ovvio che un gioco non si smonta immediatamente, ma è necessario perseverare nelle nuove risposte ed essere realmente motivati a interrompere la dinamica.
“Perché non … Sì, ma”.
Questo è stato il primo “gioco” descritto da Berne
Due amici, Claudio e Roberto, si rincontrano dopo un po' di tempo e si aggiornano reciprocamente delle proprie novità. Roberto sta vivendo con impotenza una serie di problemi sul lavoro, racconta che i suoi colleghi lo stanno “mobbizzando”, riservandogli sistematicamente i lavori più frustranti.
Claudio: “Mi dispiace di sentire questo!”.
Roberto: “Già, non so che fare”.
Claudio: “Perché non ti cerchi un nuovo posto di lavoro?”.
Roberto: “Magari”, ma purtroppo oggi c’è un altissimo tasso di disoccupazione!”.
Claudio: “Beh, allora rivolgiti ad un centro per l’impiego!”.
Roberto: “Potrei provarci, ma con le mie competenze e alla mia età sicuramente non hanno nulla per me”.
Claudio: “Allora ti aiuto io: vieni a lavorare nella mia azienda!”.
Roberto: “Ti ringrazio moltissimo! So che lo faresti col cuore, però non voglio l’aiuto di nessuno”.
Claudio: “D'accordo, ma allora perché non ne vai a parlare con il responsabile delle risorse umane?”.
Roberto: “E’ un’idea, ma in fondo non è il caso, anche lui sembra essere maldisposto nei miei confronti”.
Claudio: “Perché non vai a parlarne col capo ufficio, allora?”.
Roberto comincia ad innervosirsi ed alza leggermente la voce: “Senti forse non ti è chiara la situazione: ce l'hanno tutti con me! Chiaro?”.
Claudio, che non si aspettava questa reazione ostile, si mette un sulla difensiva: “D'accordo, cercavo solo di aiutarti ...”.
Roberto, ora completamente innervosito: “E certo, per te è facile con la tua attività in proprio!”.
Claudio, sentendosi accusato: “Scusa, dai, non fare così”.
Entrambi a questo punto sono confusi e provano emozioni negative a cui non sanno dare senso con chiarezza.
In realtà entrambi erano pronti a giocare il gioco “Perché non ... Sì, ma” e, quando si sono incontrati e inconsciamente hanno riconosciuto tale desiderio di giocare anche nell’altro, hanno giocato la loro partita che prevedibilmente li avrebbe portati a questo infelice esito finale.
E’ TUTTA COLPA TUA (TCT) (tipico gioco coniugale)
“Una signora si lamentava perché il marito non le permetteva di partecipare a certe
attività sociali, tanto, che non aveva mai imparato a ballare. Dopo che il trattamento
psichiatrico ebbe modificato l’atteggiamento di lei, il marito perdette un po’ della sua
inflessibilità e diventò più indulgente. La signora così cominciò ad allargare il suo
campo di attività. Si iscrisse ad una scuola di danza e si accorse, disperata, di avere
una paura morbosa delle piste da ballo; e così dovette rinunciare al progetto.
Questa disgraziata avventura, insieme con altre analoghe, rivelò certi aspetti importanti
della struttura del suo matrimonio. Tra i tanti corteggiatori lei s’era scelto come marito il
tipo più autoritario. Così si era messa nella posizione migliore per lamentarsi e
recriminare che “per colpa sua” aveva rinunciato a un sacco di cose; inoltre altre sue
amiche predilette avevano un marito autoritario e la mattina, quando di vedevano per
prendere il caffè, era un gran giocare a “Tutta colpa sua”.
Ma era chiaro che, nonostante tutti i suoi lamenti, il marito le faceva un favore a
proibirle una cosa di cui nel profondo aveva paura; anzi le impediva addirittura di
prendere coscienza delle sue fobie. Per questo la sua Bambina se l’era astutamente
scelto.
Ma c’è di più. Le proibizioni di lui e le proteste di lei si risolvevano spesso in litigi che
andavano a tutto scapito della loro vita sessuale. Pieno di sensi di colpa, lui le portava
un sacco di regali che in altre circostanze probabilmente non le avrebbe fatto: e infatti
quando aveva incominciato a concederle un po’ di libertà, i regali si erano diradati ed
erano diventati meno costosi. Non avevano molto da dirsi, a parte i problemi de
mènage e dei figli, e così i litigi diventavano avvenimenti importanti: era soprattutto
quando litigavano che avevano qualcosa di più di una banale conversazione. In ogni
caso la vita coniugale le aveva confermato una verità di cui era sempre stata
convinta: che gli uomini sono tutti meschini e tiranni. Come si scoprì in seguito, il suo
atteggiamento era radicato in certe tormentose fantasticherie dell’infanzia in cui
aveva immaginato di essere violentata”. (pp 57-59)
Scopo del gioco del TCT può essere la rassicurazione, (“non è che io abbia paura, èlui
che non me lo permette”) oppure la vendetta (“non è che io non ci provi, è lui che me
lo impedisce”).
Parti: il TCT si gioca in due: la moglie oppressa e il marito dominatore. La moglie può
interpretare la sua parte o da Adulta prudente (“è meglio fare come dice lui”) o da
Bambina petulante . Il marito dominatore può restare in uno stato dell’io da Adulto
(“sarebbe meglio se facessi come dico io”) o scivolare in quello parentale (“farai
meglio a comportarti come dico io”).
Dinamica: in questo caso la dinamica sottostante deriva da fonti fobiche.
Paradigma transazionale: nella forma più drammatica il TCT a livello sociale è un gioco
Genitore-Bambino.
Marito: “Non devi uscire e devi badare alla casa”
Moglie: “E’ tutta colpa tua se non posso andare un po’ a divertirmi.”
A livello psicologico. (l’ulteriore contratto matrimoniale) la relazione è Bambino-
Bambino, ed è completamente diversa.
Marito: “Voglio sempre trovarti a casa, quando rientro. Ho il terrore di essere
abbandonato.”
Moglie: “Ci sarò, se mi aiuterai ad evitare le situazioni fobiche”.
Mosse: ridotte all’essenziale la struttura del TCT sono:
1. Ordine-Obbedienza (“Non devi uscire.” “Va bene”).
2. Ordine-Protesta (“Non devi uscire.” “E’ colpa tua se non…”)
Vantaggi: (Esistenziale). La conferma della posizione della moglie – “Gli uomini sono
tutti tiranni” – rappresenta il vantaggio esistenziale. La posizione è una reazione al
bisogno di sottomettersi che è tipico delle fobie e questo dimostra la coerenza
strutturale che è alla base di tutti i giochi. Espressa in tutte lettere, l’affermazione
suonerebbe così: “Se uscissi sola tra la folla, cederei alla tentazione di sottomettermi; a
casa non mi sottometto: è lui che mi ci costringe e questo dimostra che gli uomini sono
tutti tiranni”.
Vantaggio psicologico interno: in TCT la resa all’autorità maritale, che è socialmente
accettabile, evita alla donne le fobie nevrotiche…….
Vantaggio psicologico esterno: obbedendo al marito, la moglie evita le situazioni
pubbliche di cui ha paura.
Vantaggio sociale interno: con la sua remissività la moglie si assicura il privilegio didire
“E’ tutta colpa tua” e questo l’aiuta a strutturare il tempo che deve trascorrere con il
marito.
Vantaggio sociale esterno: nel tempo che la donna trascorre con le amiche la frase
“E’ tutta colpa tua” si trasforma in “E’ tutta colpa sua”. I giochi influiscono molto sulla
scelta delle amicizia. Si invita la nuova vicina a prendere il caffè mattutino proprio per
giocare a “tutta colpa sua”. Se ci sta, diventerà un’amica intima, ma se rifiuta e la
vicina insiste a mostrarsi caritatevole verso il marito, l’amicizia non durerà.
"Gli strumenti della mente diventano ceppi quando l'ambiente che li rese necessari ha cessato di esistere"
La storia della famiglia P analizzata con il Triangolo drammatico di Karpman
di
(Redattore )
La maggior parte di noi ha sperimentato, in qualche momento della vita, il disagio di un clima familiare teso. A partire dalla prospettiva del Triangolo Drammatico, uno strumento usato in analisi transazionale, è possibile comprendere meglio le dinamiche tipiche dei conflitti familiari e provare a uscirne.
La famiglia P è una tranquilla famiglia milanese. I due figli Lucia e Giacomo frequentano il liceo e i genitori sono sposati da diversi anni. Nonostante l’apparente serenità che la famiglia comunica all’esterno, però, i conflitti e le tensioni non mancano. Le liti si ripetono sempre uguali, con lo stesso schema di alleanze e accuse, ma soprattutto con i soliti ruoli. Claudia, la mamma, rimprovera spesso Lucia di essere poco di aiuto in casa, additandola come disordinata e pigra; Roberto, il papà, cerca di intervenire per placare la lite, ma viene a sua volta accusato da entrambe le donne di parteggiare per l’altra. L’irritazione crescente lo spinge ad allontanarsi: accusa madre e figlia di essere immature ed esce di casa sbattendo la porta e chiudendosi in se stesso. In tutto questo, Giacomo, il fratello minore, si sente frustrato dalla situazione e comincia a comportarsi in modo ostile con tutta la famiglia, oscillando tra l’aggressività e la voglia di “mettere a posto le cose”.
Che cosa è successo? Perché stare insieme può diventare così faticoso?
Ciascuno dei componenti della famiglia P percepisce due sensazioni. La prima è quella di una sorta di forza gravitazionale: si sente nel giusto e sente di dover difendere le proprie ragioni. La seconda è quella di essere su uno scivolo dei parchi acquatici: procede in un vortice verso il basso senza la possibilità di fermarsi e risalire. A cosa sono dovute queste esperienze?
Secondo Stephen KARPMAN, analista transazionale americano, esiste un modello in grado di spiegare queste dinamiche, che ha chiamato triangolo drammatico. Karpman ritiene che in molte interazioni le persone rispettino una sorta di schema, in cui recitano la propria parte come se seguissero un copione. Questo schema è rappresentato da un triangolo, in cui a ogni vertice corrisponde un ruolo. I tre ruoli sono: persecutore, salvatore, vittima. Secondo l’autore, ognuna di queste posizioni permetterebbe di soddisfare alcuni bisogni egoistici:
Figlio: (nel ruolo di Persecutore, alza rabbiosamente la voce contro la madre)
“Lo sai che odio il blu. E mi vai a comperare un’altra camicia blu!”
Madre: (nel ruolo di Vittima)
“Secondo te non faccio mai niente di giusto.”
Padre: (nel ruolo di Salvatore della madre, di Persecutore del figlio)
“Non ti permettere di alzare la voce contro tua madre, giovanotto. Vattene nella tua stanza e niente cena.”
Figlio: (ora ha assunto il ruolo di Vittima e se ne va imbronciato)
“Mi dicono di essere sincero, e quando mi permetto di dire quello che non mi piace mi rimproverano. Certa gente non è mai contenta.”
Madre: (adesso è diventata Salvatrice e porta di nascosto del cibo al figlio)
“Non dirlo a tuo padre. E’ assurdo fare tanto chiasso per una camicia.”
Madre: (nel ruolo di Persecutore rivolgendosi al padre)
“Pietro sei così duro con tuo figlio. Scommetto che in questo momento ti detesta.”
Padre: (nel ruolo di Vittima)
“Ma tesoro, io stavo solo cercando di aiutarti e tu mi colpisci proprio dove più mi duole.”
Figlio: (uscendosene Salvatore)
“Su, mamma, smettila; papà è solamente stanco.”
Un esempio clinico
Dialogo tra A., un paziente, e la sua terapeuta, B.
A: -seduto raggomitolato con la testa da una parte- Non so cosa faccio qui. Se questo ha senso, se lei può aiutarmi…..
B: Non sai se ha senso e se io ti posso aiutare…
A: -interrompendola e guardandosi intorno- Esatto... non me lo merito...
B: Lo dici con una certa forza…
A: -aggressivamente- davvero?
B: quindi hai stabilito un contatto con me, in modo piuttosto energico, sembra che tu voglia mantenere il tuo punto di vista su te stesso interrompendomi.
A: mi dispiace
B: non te lo dico perché tu ti dispiaccia
A: -in silenzio
B: L’hai presa di nuovo nel modo sbagliato... beh, forse anche io l’ho presa nel modo sbagliato.
A: che cosa intende?
B: beh, il modo in cui ho posto la cosa, il fatto di averti interrotto, può esserti sembrato che volevo rimproverarti
A: sì
B: quello che vedo è che mi sembra che tu giudichi te stesso e che ti rifiuti di considerare quello che ti potrei dire
silenzio
B: - continuando a guardarlo- Sono ancora qui
A:-lunga pausa, inizia a piangere, piano, guardando B. e fuggendo poi il suo sguardo rompendo a tratti il contatto con lei- Quando facevo il cattivo mia madre mi chiudeva nello sgabuzzino dei giochi. Alla fine ci andavo prima che mi ci mandasse lei.
B: quindi ti “chiudevi” prima che lo facesse lei.
A: sì
B: Sembra un buon modo di proteggerti. Lo fai anche adesso qui con me?
A: beh, suppongo che non dovrei “chiuderti fuori”………
Berne offre un modello di contenimento (containment), che non è tanto un ambiente di supporto (holding) quanto un ambiente facilitante (facilitating), per usare il linguaggio di Bion e Winnicott; offre un modello dove il terapeuta è schierato con l’Adulto e regola attentamente gli interventi perché arrivino al momento giusto per far sì che il paziente si senta libero di pensare e di sentire in modo autonomo. Lo spazio del “come se” del processo terapeutico non viene chiuso assumendo una figura genitoriale, ma si sfrutta la forza degli atteggiamenti genitoriali del permesso, della protezione e della potenza per creare uno spazio psicologico nel quale il paziente abbia la possibilità di sviluppare un suo proprio funzionamento autonomo.
...il gruppo terapeutico di Berne non era un ambiente di sostegno (holding) empatico, bensì una matrice di studio interpersonale. Per esempio, in Principi di Trattamento di Gruppo sono descritte otto operazioni terapeutiche che «formano la tecnica dell’Analisi Transazionale» (Berne, 1966) e cioè: interrogazione, specificazione, confrontazione, spiegazione, illustrazione (umorismo e simili), conferma, interpretazione e cristallizzazione. Queste operazioni terapeutiche sono descritte dettagliatamente, illustrate e chiarite, indicando anche come utilizzarle, quando utilizzarle e quando no. Come si noterà, empatia, holding e attaccamento non fanno parte dell’elenco. Gli interventi terapeutici di Berne miravano a sollecitare l’auto-osservazione e la curiosità, in modo da decontaminare e stabilizzare il funzionamento dello stato dell’Io Adulto.
Nella teoria e nella pratica dell’AT, l’Adulto è lo stato dell’Io che rimane, dopo che tutti gli elementi del Bambino e del Genitore sono stati analizzati e che si riduce “alla realtà del vivere terreno”. Questo Stato dell’Io, concentrato unicamente sul presente, sa agire in autonomia (con consapevolezza, spontaneità e intimità).
Berne (1964, pag. 75) descrive lo stato dell’Io Adulto come “caratterizzato da un insieme autonomo di sentimenti, atteggiamenti e comportamenti che sono adeguati alla realtà attuale”
L’Adulto Integrato, o meglio, Integrante, descrive la capacità dell’individuo di riflettere ed integrare i propri stati arcaici così come le introiezioni risalenti al passato, per utilizzarli al fine di stabilire relazioni incentrate sul presente, nella vita come nel setting terapeutico, sia egli un paziente o un terapeuta.
L’Adulto quindi è un motore al comportamento attuale; determina la capacità di impiegarsi in relazioni mature e la capacità di effettuare ragionamenti astratti, logici e creativi.