av marco noris för 17 årar sedan
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Saluto il barista con la mano sinistra, il bracciale elettronico di controllo mi scende lungo l'avambraccio. Apro la porta e mi avvio verso la Banca.
Anche il banchiere mi sorride, così come il fruttivendolo e la lattaia.
Torno verso casa.
Un uomo si sveglia e risveglia. Ogni nuovo inizio un risveglio, ogni finale una morte. Sempre lo stesso edificio ma storie, personaggi e tempi differenti.
Dall'altro lato del marciapiede. Fermo intirizzito, fumo il mio mozzicone di sigaretta, avanzo della notte passata. Sul muro, "Please save the planet: kill your self".
Più mi tenete dentro, più diventano forti. E' una gara contro il tempo. Una sola possibilità, perdi o vinci. Vediamo se riuscite a eliminarci tutti prima che sia troppo tardi, prima che diveniamo troppo potenti.
Ci cercheranno uno a uno e con stile e metodo ci annulleranno, nel silenzio.
L'antica città protegge la quiete di terra dalla furia del mare.
Qualche non morto, in compagnia di parenti e cadaveri (stessa specie in differenti stati di decomposizione) si contende il campo radiattivo, una volta arena di spettacolari incontri, ora putrido immondezzaio evitato con ribrezzo da topi, piccioni e gabbiani.
Coppia albanese con bimbo dai pantaloni rossi e casacca azzurra. Bimbo biondo dallo sguardo fiero che gira tra le macerie. Il cielo è opaco, l'aria mossa da un leggero vento. La guerra non è mai così lontana.
Si ricordò di quel Natale aprendo la porta della lavanderia. Un Natale insanguinato, uno come tanti. Seguiva il Flusso d'energia già da venti minuti, forse mezz'ora. Poi bastò spingere la porta e le Grandi Centrifughe dell'Universo gli riversarono addosso litri di sangue, sangue denso e rossi brandelli morbidi caldi rossi brandelli intestinali.
Lasciò spazio al loro Natale e abbandonò il Flusso, perdendo quelle vaghe figure gialle alle quali insegnò a parlare. Riempì la lavatrice riversandole dentro qualche kilo di malessere in cotone misto sintetico e una manciata di puro detersivo chimico. Osservò a lungo la centrifuga girare strapazzare risciacquare gli ultimi giorni di Flusso. Acqua rossa e bollicine di sapone, natura pentagonale a interesezioni randomiche di sangue e composti chimici. Mai vestiti puliti furono così sporchi.
Già da tempo aveva perso l'abitudine di seguire la luna nel suo regolare ciclo mensile. Non la cercava neanche più, troppo lontana, la luna. E nell'impossibilità mestruale di un maschio medio, fece della lavanderia il Tempio dove celebrare il suo ciclo vitale, il luogo dove resettare l'accumulo di lordume e battezzare il prossimo ritorno al mondo. Mezza'ora di lavaggio, mezza di asciugatura, mezzo pomeriggio ogni mezzo mese, un bimestre per allinearsi con l'intero e sei interi, un mezzo anno.
Ma dove mi sono messo? E dove ho messo tutto?
Per natale a tutti i bimbi del mondo topi di peluche che squittiscono quando li schiacci.
E' triste. Triste e stanca. Affossata nel sedile, alterna momenti di veglia a brevi periodi di sonno. Indossa una giacca a vento imbottita. La mano destra è ancora infilata nelle maniglie di una sporta gonfia di oggetti, come se attendesse di scendere da un momento all'altro o come se ancora stentasse a cogliere la situazione in cui si trova.
E' triste e stanca. Due morbide labbra, la pelle scura riflesso di luce. Non è giovane ma probabilmente dimostra più anni di quanti ne porta.
Si sveglia di nuovo alla stazione di Cremona, si affaccia al finestrino a osservare la coltre di neve che ricopre i binari. Per un istante osserva distratta questo bianco panorama natalizio poi, affossata nella poltrona, torna ai suoi pensieri distanti nello spazio e e nel tempo a osservare quella vita che un tempo era sua.
"Secondo te, che senso ha?".
"Non ne ho idea".
Invece si, un'idea ce l'avevo. Piuttosto, d'idee, non volevo averne, no, niente idee.
Vista sulla terra dall'aereo, chiazze di luce. Disegni. Costellazioni terrestri. Equilibri naturali. Puntini spruzzati come lentiggini, linee di colori. Luci gialle arancioni bianche e piccoli punti rossi blu azzurri di cartelloni e insegne luminose. Linee nette e morbide, curve lievi, differenti spessori.
Rialzarsi, non sempre è piacevole. Spesso faticoso, costretto dal tempo. Seduto su quel gradino, cinquanta forse sessanta per quindici di profondità, il tempo non scorre, mi aspetta. Non posso sperare che venga a mannaia. Non posso chiedergli di andare avanti, di precedermi che poi lo raggiungo. No, non posso. Mi sono rialzato spingendomi sul gradino successivo, altre volte sfruttando quello precedente. Solo al primo rialzarmi ho scosso la testa e strofinato capelli e spalle per ripulirmi dalla polvere. Un gesto dovuto ad un'idea.
Mi sono scoperto a ridere sguaiatamente, addormentato contro la parete. Testa china, ginocchia piegate, culo sporco. Non ricordo nulla di quei faticosi cedimenti. Sonni senza sogni, riposi senza ricordi. Solo sensazioni collose simili a racconti di vite estranee. Ho lasciato che il silenzio si riempisse di spesse certezze, convinzioni intime non necessarie ad espressione. Inutilmente confessabili, inconfutabili, stinte fuori, cariche dentro.
Lascio che la polvere sollevata si depositi nell'oscurità e che tappeto diventi per un percorso che nessun occhio mai potrà svelare. Non ho fretta, no. Perché mai arrancare confondendo una meta certa con un percorso sconosciuto? Talvolta mi arresto, spossato. Appoggio la schiena alla parete e mi riposo. Capita di strofinare cotone grezzo in verticale, lungo il muro. Mi adagio sui talloni, rovesciandomi intonaco sulla testa, impolverandomi capelli e spalle. Momenti che scanditi appaiono regolari secondo un computo temporale prestabilito, sono, lungo il percorso, distorsioni imprecise senza inizio né fine.
Le scale sono ripide, i gradini seguono l'uno all'altro alternando altezze e spessori. In larghezza cinquanta, forse sessanta centimetri. Quindici in profondità. Strofino la spalla destra sull'intonaco friabile, vecchio di decenni. Il tessuto ruvido raccoglie polvere e frammenti. Accumulo sporcizia con vanità, accolgo lordume gradino per gradino e me ne compiaccio. Non mi arresto, il percorso è lungo, o almeno così mi hanno detto. Non vedo la fine della scalinata, il buio la inghiotte, onesto e impietoso non concede speranze, facili promesse, riflessi d'opinione. Non ho fretta. Prolungo rallentando, convinto di un'infinita salita. Non ho fretta, lascio spazzolate d'intonaco alle mie spalle e buio ad accogliere i momenti di poco precedenti.
Passa di stanza in stanza attraversando lunghi corridoi. Non capisce, non può capire: anche la sua mente si muove lungo stretti corridoi. Nella prima stanza, la stessa di sempre, una stanza del 2007 osservata direttamente dal 2050 o chissà, dal 2038. La seconda stanza la stessa stanza, più vecchia e decrepita, come vittima di bombardamenti.
Un passaggio temporale in cui non sa se è lui che va avanti nel tempo o se è la stessa stanza che corre indietro, sempre più lontano.
Un uomo seduto su una poltrona sfasciata, guarda nel vuoto con sguardo lucido. Alterna lunghi momenti di silenzio a brevi scampoli di racconto. É la sua storia e la storia di una stanza che vive nel suo stesso isolamento. Una stanza che non è mai stata vista dal giorno in cui è stata costruita.
Una alienante panoramica sulla cucina di casa, suoni che creano il mondo circostante.
Una figura si avvicina. Si, si avvicina muovendosi spalmata lungo i corridoi di casa.
Una dissolvenza, lenta. Un'ombra si scioglie al di là del vetro.
- C'è gente molto strana che frequenta questa casa - il vampiro sulla poltroncina rossa, in velluto consunto parla sottovoce, poi fa silenzio.
Continua a guardare nel vuoto e la caldaia si accende.
Lo guardai osservare il posacenere per ore e ore
E cosí rimase, il Vampiro. Seduto sulla piccola poltrona di velluto. In silenzio con il suo fottutissimo sguardo acuto. Lo guardai osservare il posacenere per ore e ore. Io guardavo lui, lui guardava il posacenere, il posacenere si riempiva sempre più velocemente, sigaretta dopo sigaretta.
Sole. L'aria è tiepida, una brezza leggera mi accarezza il volto. Sono uscito di primo mattino, lei ancora dormiva. L'ho accarezzata dolcemente e baciata sul collo, proprio dietro l'orecchio.
La Sciona
Scendendo le scale, quelle scale antiche, ripide, tutte storte e imprevedibili, ho incontrato la nostra vicina, un signora vecchia e rugosa che tutti chiamano "la Sciona".
"La Sciona" arrancava trascinando con sè un grosso sacco di spazzatura. Levandoglielo di mano la prendo a braccetto e l'accompagno chiacchierando fino all'uscita. La vicina mi sorride cordialmente, nascondendo tra le pieghe del viso quel grosso neo vecchio quanto lei.
Al bar
Prima di dirigermi verso la banca mi fermo al bar per una colazione veloce. L'atmosfera è frizzante, il locale è in movimento. Gruppetti di giovani chiacchierano attorno ai loro caffè, il barista fischietta seguendo una melodia diffusa da un piccolo stereo. Mi sorride anche il barista.
Ordino caffè e brioche, sorrido ai vicini di tavolo e afferro il Corriere per leggere le ultime notizie. Lascio il cellulare spento.
E ' morto Craxi, la destra vuole le elezioni, il Ministro dell'Interno vuole la polizia per strada, il Ministro del Lavoro vuole flessibilità la Confindustria però vuole stipendi più bassi i sindacati vogliono tranquillità Rifondazione non ci sta in Kosovo muoiono ancora Emporio Armani i centri sociali protestano i centri sociali occupati protestano. Naomi si sposa Fazio a San Remo Battisti canta dall'aldilà le telecamere per strada la Juve da sola in testa al campionato Wind urbana a 1,1 lire al secondo Maurizio Costanzo AOL Southpark è tosto ma con beep e merchandising i disoccupati aumentano e gli altri vogliono sicurezza i soldi diminuiscono e gli altri vogliono la tv le scuole non insegnano e loro non danno lavoro. Chiudo il giornale e bevo il caffè.
Saluto il barista con la mano sinistra, il bracciale elettronico di controllo mi scende lungo l'avambraccio. Apro la porta e mi avvio verso la Banca.
Anche il banchiere mi sorride, così come il fruttivendolo e la lattaia.
Torno verso casa.
Eravamo ormai da tempo distanti dalle stagioni che attraversavamo.
Il tempo correva veloce e omogeneo, asettico nell'esibizione delle sue forme in uno sterile esercizio di stile.
Il tempo per noi si sviluppava quasi esclusivamente sull'asse Z della nostra vita.
A tratti, brevi ed intensi flash di esistenza, potevamo godere di un ritrovato sé lungo le nostre coordinate cartesiane. Ma solo a tratti, per il resto una lunga apnea nel profondo del nostro segmento di tempo virtuale.
Me la immagino
Me la immagino scorrere davanti agli occhi.
La fermo con serenità in una qualsiasi strada del centro.
La stringo a me,
con forza,
le chiedo di credere in me,
mi risponde per due.
Seduto
Sto seduto muro di fronte a me.
Bianco smaltato, pieno della sua nudità.
Sedia vuota tra me e il muro
bianco smaltato.
Lei non c'è.
L'ho aspettata per ore
guardando nel vuoto.
Sopra di me la caldaia si accendeva e spegneva
con regolarità.
Sara. E' morta molte volte nell'arco di un breve periodo di tempo. Tre, quattro, forse cinque volte in meno di due giorni. La ritrovo sempre nella stessa posizione nello stesso letto, nella stessa tiepida mattina di primavera. Il tutto incomincia ad essere noioso. Mi alzo e preparo il caffè. La sveglierò con un bacio portandole la colazione a letto. Lei si girerà sul fianco sinistro, mi sorriderà dolce guardandomi negli occhi e faremo l'amore con passione sbattendoci attraverso la stanza.
Una volta le ho rovesciato il caffè in faccia, così, giusto per vedere che succedeva. Cattivissima idea. Per zittirla ho dovuto colpirla una dozzina di volte con la base di una vera finta statuetta di bronzo d'origine ellenica. Il regalo di una sua vecchia amica che ho pescato direttamente da lontani ricordi d'infanzia. Mai stato in Grecia, cmq.z
Girati per favore, girati
Di Sara non me ne fotte nulla. Ho imparato a vivermela per quello che è, addestramento. Le prime volte sentirla recitare sé stessa era quasi
divertente. Passavo ore spostandole l'esistenza a seconda dei miei più assurdi capricci e osservando compiaciuto quel perfetto esempio di realtà muoversi nella gabbia trasparente della sua esistenza. Un perfetto esercizio di causa e conseguenza, causa, conseguenza. Ora Sara è una scheggia d'esistenza conficcata nel tempo, un susseguirsi di azioni e pensieri racchiuso in un pacchetto regalo di 2160 minuti.
Esercizio numero 5. Traccia delle coordinate nello spazio e nel tempo, circoscrivine i contorni e studia quel tratto d'esistenza attimo per attimo. Otterrai un perfetto preconfezionato a lunga scadenza. Triste.
Erano troppi e non sentivo nulla.
Poi fu la volta di quello strano giovane che viveva tra il sogno e il mondo reale, un continuo incrocio di eventi, di-segni dell'invisibile. Semplici incroci di narrazione.
Misuro la mia fiacchezza ogni sera, in bagno davanti allo specchio, dopo un'altra giornata passata, un'altra telefonata non fatta, un po' di gengiva in meno.
Oggi i citofoni mi hanno parlato attirando insistentemente la mia attenzione. Hanno cercato di comunicare con me nei modi a loro più congeniali.
Oggi ho parlato attraverso i citofoni. Ho cercato di dirmi qualcosa senza che io me ne accorgessi.
Oggi comunico tra me e me cortocircuitando.
Inverno. Inverno di fine anno. Prossimo ad un anno simmetrico consumo briciole di tempo gettandole a feroci piccioni grigi piccioni cacabombe. Mi spengo spesso, OnOff frequente, cortocircuito e non oppongo resistenza. Merry Christmas, testa di cazzo.
E' come un mattone, che poi se la cancelli devi come prendere il martello e schiantarlo sul mattone stesso.
Poi una sigaretta, ma quella ci sta dentro comunque. Vedo figure di giovani uomini fumare sigarette e muoversi su piane superfici gialle.
Non so, pochi secondi ancora ed è pronto e io son qui sempre più convinto di non doverci stare. Sono qui proprio per darmi del coglione, altrimenti che ci sono restato a fare?
I limiti dell'hoverclocking. Mi si sta bruciando il cervello.
Continuare a insistere su giovani e superifici gialle, ecco, mi sembra superfluo. Lascio stare e procedo. Giorni fa non ero qui e avrei voluto essere altrove.
Ora è diverso, l'altrove non c'è se non in un'idea astratta e io mi domando se raggiungere amici che l'altrove l'hanno trovato, ma non lo stesso, credo. Mettermi alla loro ricerca, ci penso. Ma loro chi? E dove? Da che parte inizio?
È un altrove che è qui, per caso?
Anno duemilauno. Genova, New York, Afghanistan, Palestina. Secchiate di merda rovesciano mondi e scuotono animi.
La resa dei conti che non tornano.
RISVEGLIO GIALLO - SCUOTIMI, TI PREGO, SCUOTIMI!
Dal buio, una finestra, tintinnìo di campanelle scacciaspiriti. Tragitto verso la cucina per la colazione. Spremiagrumi, rumore persistente di spremiagrumi. Sul fondo attacca la musica, bassa e lieve. Il rumore di spremiagrumi mi segue mentre il video cambia per lasciar spazio ad una doccia, al primo piano di lui sotto la doccia. Allo spremiagrumi si somma il rumore d'acqua che scorre. Distorsione del viso, il viaggio inizia dall'acqua. Acqua gialla come il succo d'arancia.
Camminavo rasente al muro per paura d'incontrarmi.
(IERI, DOVE?)
E ' uscito di primo mattino, ancora dormivo. Mi ha accarezzata dolcemente e baciata sul collo, proprio dietro l'orecchio. L'ho sentito scendere le scale in compagnia di qualcuno. Mi racconterà.
Mi alzo a malavoglia
Mi alzo di malavoglia, lego i capelli con un vecchio foulard azzurro, indosso un paio di pantaloni di cotone ormai consunti e mi accendo una sigaretta. C'è il sole, l'aria è tiepida e tutto sembra più semplice. Lui ieri ha perso il lavoro, è ebreo e le leggi razziali si fanno più dure, ma oggi... oggi c'è il sole.
In bagno
Vado in bagno e mi guardo allo specchio. Ricordo ancora quando le mie palpebre non erano segnate da rughe e i miei occhi brillavano di luce propria. Ricordo ancora quando il mio neo era piccolo e delicato, ero una bambina. Col tempo s'è ingrandito, quasi come se assorbisse ansie e preoccupazioni.
Mi lavo ed esco per andare al mercato.
Il fruttivendolo e la lattaia mi sorridono, così come il giovane fascista fiero e arrogante che incrocio fuori dal portone di casa. Accelero il passo e scompaio tra la folla, rasserenata dal poter sfuggire alla sua vista.
Una leggera brezza mi accarezza il volto.
Da qualche minuto osservo la fotografia sulla scrivania. Mio padre, abbracciato a sua madre in uno dei suoi ultimi anni di vita. Sorride serena la nonnina, gli occhi sono luminosi, come se brillassero di luce propria. Il sorriso è ampio e sincero tanto da nascondere tra le pieghe del viso quel grosso neo che mi ha sempre attratto sin da quando ero bambino.
Lo squillo del videofono
Lo squillo del videofono mi allontana dai ricordi. Il numero sul display è quello del Questore, appena uscito da una riunione con Sindaco e Prefetto. Sembra che la produzione di bracciali elettronici di controllo debba aumentare di 500.000 unità per il prossimo cronoperiodo. È il terzo ordine da parte della Federazione negli ultimi cinque cronoperiodi. Dapprima abbiamo fornito 350.000 telecamere, successivamente abbiamo fatto da intermediari tra la Federazione e la NewSystems per la messa in opera del nuovo sistema televisivo a doppio canale, uno in uscita per le trasmissioni di intrattenimento della Federazione, uno in entrata per un monitoraggio completo delle unità abitative.
Infine, giusto il cronoperiodo scorso, abbiamo fornito il nuovo software di intercettazione di massa, Echelon III.
La giornata inizia bene
La giornata inizia bene, nuovi e più efficienti sistemi di sicurezza sono stati approvati dalla Federazione, potremo dormire sonni più tranquilli sapendo che anche domattina nulla sarà cambiato.
Fra pochi cronoperiodi le videoelezioni definiranno il nuovo organigramma della Federazione senza pericolo di interferenze. La pubblicità televisiva permetterà al cittadino una libera scelta per il proprio futuro, senza temere hackeraggi di nessun tipo. Il telelavoratore seguirà il proprio programma lavorativo per il periodo assegnatogli.
E in più, con la nuova fornitura di bracciali elettronici, potremo liberare le carceri dai disadattati protestatari che le stanno riempiendo. Intellettuali, artisti, telelavoratori, religiosi di ogni sorta, che fino all'altroieri erano in piazza, in rete, sui giornali o in libreria a gridare il loro fallimento in faccia ai telecittadini, potranno ritornare liberi contribuendo al buon funzionamento del sistema federativo.
Finalmente, questi scarti sociali frustrati dal loro essere un numero tra tanti, potranno sentirsi utili e integrati: strade pulite, giardini in ordine, vestiti decorosi e rispetto delle teleleggi. Potranno aiutare le forze dell'ordine a mantenere saldi i principi morali del nostro sistema.
Mi alzo ed esco per un caffè.
Mi muovo in direzione 2001. Una decisione improvvisa come conseguenza di incomprensibili decisioni. Ho trentasei ore a disposizione prima che le Linee si spostino impedendomi il ritorno.
Riempio una piccola valigia con lo stretto necessario, vestiti, sfera, qualche piccolo file dall'aspetto colorato e dalla superificie lucida. Mi siedo qualche minuto. Chiudo gli occhi. Ho bisogno di qualche minuto per far spazio e ridurre il flusso caotico di pensieri ad un flebile ronzio. Silenzio.
Ormai sono pronto
Ormai sono pronto, sciolgo in bocca due chron, e un'altro ancora, quel tanto in più per sciogliere muscoli e mandibola. Richiudo gli occhi, mi immergo nel ronzio e schizzo come un tappo di sughero lungo i capillari d'energia, scaraventato direttamente nel letto di Sara, 22 febbraio 2001. Diocristo. Due lune di lavoro per trovarmi di nuovo lì, sdraiato, con un assurdo slip azzurro.
La bolla
La bolla brilla in una umida opaca penombra. Mi sono mosso alla svelta dopo un'abbondante dose di chron. Ho aperto le porte sul tempo e mi sono lasciato risucchiare dall'universo. La bolla, nome a definire una sensazione e una condizione. Temporalmente indefinibile, spazialmente imprevedibile, è un non-luogo, in qualche modo simile agli antichi aeroporti. É un attimo eterno nel quale nessuno, sembra, ha mai avuto il coraggio (o la capacità) di soggiornare più dello stretto necessario.
Umida e opaca penombra, partenza, arrivo. Utero.
Non dieci. Possono essere cento o mille, di sicuro non dieci. Mi apparivano sfuocate come una macro malriuscita. Un continuo indaffarato movimento senza senso apparente.
Aspetto che lui torni. Cinque minuti ha detto, "torno tra cinque minuti". Quattro minuti e trentacinque secondi passati a guardare questi cazzo di animaletti. Quattro minuti e cinquantacinque secondi.
Schiaccio la realtà in un barattolo di latta, dodici d'altezza sei di diametro.
Ne avanza sempre un poco, poi chiudo.
"Ciao"
"Ti stavo aspettando"
Esordiva così.
Ti parlava del buio, dal buio.
Si presentò con eleganza, oscuro stile di oscura coscienza.
Phobos infilava schegge sotto le unghie.