jonka Luciana Spoltore 5 vuotta sitten
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L'arte può essere strumento di rappresentazione della realtà
Lampedusa" è diventata una "barchetta" con la stesa forma di quelle che fanno i bambini con la carta, solo che è lunga 45 piedi, circa 15 metri. Si tratta di un'istallazione galleggiante su larga scala che verrà presentata il 5 Maggio durante la
56sima Biennale d'Arte di Venezia
. Per questo lavoro d'arte pubblica, Vik Muniz impiega il suo tradizionale uso di materiali inusuali e la manipolazione delle dimensioni per convertire la prevedibilità in stupore. Installata nel contesto navale di Venezia, "Lampedusa" è la rappresentazione di una barca di carta costruita in scala con la grandezza di un tradizionale vaporetto Veneziano.
Un memento dopo la fine di Mare Nostrum. Quest'opera è stata concepita poco dopo la fine dell'Operazione Mare Nostrum come un memento. Dopo la tragedia di Lampedusa del 2013 nulla è rimasto come prima. L'opera vuole riaffermare il pericolo in agguato ogni volta che diminuisce l'attenzione e il supporto ai rifugiati nel Mediterraneo. L'originale significato dell'opera è divenuto irrilevante di fronte al concreto ripetersi dell'orrore, con la morte per affogamento di più di mille persone che cercavano di raggiungere l'Europa tra il 12 e il 19 Aprile di quest'anno. "Lampedusa" non è più solo un memento, perché nulla può renderci più coscienti della tragedia se non una tragedia di ancor più grandi dimensioni. Quello che doveva essere un richiamo per una causa è ora divenuto una nave di salvataggio; una piattaforma per una missione di fundraising per aiutare il
Consiglio Italiano per i Rifugiati
(CIR) a far fronte alla crescente complessità e alla difficile gestione emergenziale della crisi nel Mediterraneo. Un'asta di beneficienza si terrà a Christie's Londra nell'Ottobre 2015.
Come è fatta. "Lampedusa" è un struttura di legno di 45 piedi realizzata da artisti veneziani del
. La struttura è coperta da materiale che riproduce la prima pagina del giornale
datata 4 Ottobre 2013, il giorno seguente alla tragedia di Lampedusa. La barca navigherà come una normale barca, ma non potrà prendere a bordo passeggeri. Verrà rimorchiata e ormeggiata in luoghi strategici a Venezia, fino ad Ottobre.
Nel gennaio del 2016, l’artista palestinese Khaled Jarrar ha viaggiato lungo la frontiera, divisa da un’alta e impenetrabile barriera, che divide il Messico e gli Stati Uniti, da San Diego/Tijuana a El Paso/Juarez. A Ciudad Juarez ha realizzato una
protesa verso il cielo, fatta di pezzi divelti dal divisorio del confine. Poi, a bordo di un pullmann dell’associazione “Culturunners”, ha preso a viaggiare per gli Stati Uniti per sensibilizzare altri artisti al problema dei clandestini messicani e l’obbiettivo di arrivare a Washington, allo Smithsonian Museum, dove gli allestiranno una mostra. Il lavoro di Khaled Jarrar si concentra sulle restrizioni rispetto ai movimenti delle genti e dei popoli, a iniziare da quello palestinese, sia all’interno che all’esterno dei loro territori. Un’indagine sull’utopia della libertà e sul concetto di confini che la limitano drammaticamente: barriere spesso taglienti, pericolose, bagnata di sangue e di tensione. La sua opera più importante, il video Infiltrators (2013) documenta il viaggio di un gruppo di palestinesi, che illegalmente entrano a Gerusalemme attraverso il muro di separazione tra Israele e Cisgiordania. Clandestini, osservati e filmati in piena notte, nel disperato tentativo di raggiungere le famiglie, un’occasione di lavoro, una casa, degli amici.
L’artista e attivista cinese Ai Weiwei alla Národní Galerie di Praga, con la mostra Law of the Journey, realizza un’installazione di 70 metri di lunghezza di manichini gonfiabili che rappresentano migranti senza volto. Obiettivo è denunciare la sofferenza dei popoli migranti e la politica di austerità della Repubblica Ceca. La mostra è visitabile fino a luglio del 2018.
Rashed Al Shashai
Erranti di un esodo che sradica radici e le trasporta verso nuovi approdi. E dall’esperienza personale di emigrante di Adrian Paci3, che si fa moto ispiratore e creativo, nasce Home to go4. Un manichino bianco, modellato in gesso e polvere di marmo, ritrae il cammino dell’artista migrante e di ciascuno di noi. Il corpo è piegato sotto il peso di un tetto. Nel tetto, in quel carattere che l’infanzia identifica come la casa e l’essenza dell’esistenza, c’è tutta l’oggettivazione dell’appartenenza e forse in senso più ampio dell’identità, che non è solo impastata dalle radici che costituiscono quel perenne “da dove” arriviamo, ma anche dalle trasformazioni e contaminazioni “di come” cambiamo.
Un tetto realizzato secondo i canoni consueti della convenzione: fila simmetriche di tegole dai rossi più chiari ai più scuri, ma rovesciato, ribaltato. Più che suggerire l’avere rifugio, è il cercare rifugio, un percorso nomade con le radici con sé verso luoghi in cui fermarsi. Non rimanda alla protezione, al nido che avvolge e rassicura, ma può costituire il senso del ricordo, e nel peso lo sforzo di portare con sé identità e storia, quella memoria dei Penati protettori che l’errante esule Enea reca con sé. Ed è ancor più un percorso dell’anima e dell’identità, di precarie appartenenze, oltre che geografico e sociale. Viaggio verso l’ignoto che annoda il dramma della perdita, della diaspora etnica, dell’abbandono della propria terra alla condizione di migranti, ma anche quello della ricerca. Il tetto, pesante croce legata sulle spalle, è il peso e la forza del movimento-migrazione di popoli, di memoria e di identità che mutano.
Il tetto è azione. Allude, come lo stesso autore ha affermato, ad un paio d’ali o allo scafo di una barca, mezzo ed essenza che accompagna, conduce, segna il percorso e ci rammenta chi siamo. L’atto del volo in tutto lo sforzo e il peso del sollevarsi da terra, o la gravità della sagoma del barcone che avanza e procede su rotta ignota. Il tetto è lo sforzo, il peso dell’andare. L’andare che plasma la condizione di migrante, ma che travalica una condizione e diventa la condizione, consentendo di riconoscerci nella fatica della ricerca e del cammino dell’esistere.
L'anonimato del viaggio clandestino non ha volto, né corpo. Un barcone di scarpe di varie tipologie e misure, per identità di genere ed età diverse. Scarpe incollate, quasi impastate. Un barcone che non è contenitore, ma impasto di quelle scarpe. Evoca prepotentemente la drammaticità delle fotografie dell’Olocausto: la silenziosa presenza di mucchi di scarpe dei deportati che urla al nostro non vedere, che interroga le memorie. La scarpa, oggetto che evoca una presenza nell’assenza. Materializzazione della corporeità assente delle donne e degli uomini e del loro dramma. Il viaggio è Barka, fatta nei volumi e nelle forme dai corpi dei viaggiatori stipati, che qui sono scarpe, non volti, abiti, corpi, pensieri, è l’anonimato senza tempo dei viaggiatori clandestini ed è presenza viva, più forte di migliaia di presenze.
Una delle opere di Banksy più interessanti, posta accanto all’ambasciata francese di Londra, rappresenta una giovane donna in lacrime – probabilmente
, un personaggio de
di
– con ai piedi una latta di gas lacrimogeno, e alle spalle la bandiera francese. Il murales è una critica aperta al trattamento riservato ai migranti nel campo profughi di Calais, nel nord della Francia sul canale della Manica, davanti alla costa inglese. La notte tra il 5 e il 6 gennaio del 2016, nel tentativo di demolire una parte della baraccopoli, soprannominata “The Jungle” (la giungla) per le condizioni in cui i migranti sono costretti a vivere, sarebbero stati usati anche gas lacrimogeni. La particolarità dell’opera sta nella sua interattività: grazie alla presenza dello stencil di un QR Code chiunque di trovi a passare in quella zona può vedere il video di quanto accaduto quella notte avvicinando il proprio smartphone.
https://youtu.be/OQCP_inka-Q
Un altro noto artista è intervenuto con il proprio lavoro, sulla questione del trattamento riservato ai rifugiati e sulla loro gestione da parte delle istituzioni europee. Si tratta di
, writer dall’identità sconosciuta, che fa dei suoi murales e della sua street art uno strumento di dissenso, protesta e denuncia sociale.
Tra le sue opere più note quella che ritrae
, ideatore della Apple, su un muro del
, porto francese nel nord posto sul canale della Manica. In questo modo l’artista ha voluto esprimere il proprio sostegno nei confronti dei migranti. L’artista ha spiegato in un
: “Siamo portati a pensare che l’immigrazione dreni le risorse di un Paese e invece Steve Jobs era il figlio di un migrante siriano”. Apple è l’azienda con più profitti al mondo, paga circa sette miliardi di dollari all’anno di tasse ed esiste unicamente perché hanno accolto un giovane uomo da Homs“.
Sempre a
sono presenti altri tre murales in cui l’artista rappresenta il dramma dei migranti. Nel dicembre del 2015 di fronte a una spiaggia di Calais, Banksy ha realizzato uno stencil che raffigura un bambino con una valigia, che guarda in direzione dell’Inghilterra con un cannocchiale sul quale è appollaiato un avvoltoio.
(ANSA) - PESCARA, 7 FEB - Così come accaduto ad Atri (Teramo) lo scorso 3 febbraio, in occasione della visita in Abruzzo del vicepremier e ministro dell'Interno Matteo Salvini, questa mattina a Pescara, nel piazzale antistante Palazzo di Città, dove nel pomeriggio ci sarà una conferenza stampa congiunta di Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, a sostegno del candidato presidente del centrodestra Marco Marsilio alle regionali del 10 febbraio prossimo, la Rete Oltre il Ponte, ha realizzato con 'Arte Resistente' l'installazione artistica 'mani' che annegano. L'installazione, dicono gli ideatori per ricordare al ministro dell'Interno, "che le vite delle persone ci stanno a cuore e vogliamo che più nessuno muoia in mare". Le immagini delle mani che annegano sono diventate ormai virali sulla rete con migliaia di like e condivisioni.
La Rete Oltre il Ponte, cui hanno aderito anche una trentina di associazioni pescaresi, è nata nata ad agosto scorso con l'obiettivo di mantenere viva la sensibilità verso le tematiche riguardanti l'immigrazione. (ANSA).
Nel 2017 è stata inaugurata a Palermo
, un’installazione che nasce da un progetto di ricerca sui rifugiati e sui campi profughi nel mondo, che mira all’analisi della cornice storica, politica e sociale in cui la “crisi dei rifugiati” si sviluppa.
https://www.civita.it/Sala-stampa/ODYSSEY-Un-progetto-di-AI-WEIWEI-per-Palermo
Ai Weiwei ama stupire, interrogare, lo ha fatto anche alla
dove 14 mila giubbotti di salvataggio ricoprivano le imponenti colonne e campeggiava un grande manifesto con l’hashtag #SafePassage. Un appello per l’apertura di corridoi umanitari che permettano di evitare le stragi nel Mediterraneo. Una sorta di “memoriale” temporaneo dedicato ai migranti e ai rifugiati.
A Praga nel 2016, in occasione di una sua esposizione, Ai WeiWei ha deciso di coprire alcune sue statue con i teli termici utilizzati dai migranti per attirare l’attenzione sulla loro condizione. A tal proposito dice: “
”.
Ai WeiWei a Firenze ha proposto un allestimento clamoroso di
, uno dei più bei palazzi del Rinascimento, appendendo sulla facciata 22 canotti di salvataggio, a copertura delle finestre del primo piano. L’opera si intitola Reframe, cioè “nuova cornice”. “
Non è una provocazione ma un invito ad un altro modo di sentire l’umanità
” ha detto l’artista.
Stefano Scheda, Che terra tocchi?, Infradito 03, 2015, installazione 32 paia infradito, stampa su plastica misure varie
Liuba propone ad ArteFiera una performance collettiva in cui le persone sono costrette a comprimersi su isole-tappeti, metafore del viaggio della speranza dei migranti. Qui i corpi si toccano e gli spazi collidono, mentre, per 12 lunghi minuti, si esplora il silenzio come accoglienza dell’altro. La performer e video-artista ha realizzato, a partire dal 2014, tre progetti performativi e partecipativi nati dalla frequentazione dei rifugiati in una tendopoli nel centro di Berlino.
Nell’estate
del 2015, Corrado Levi si trovava sulla spiaggia di Otranto per suonare
il violoncello davanti al mare. Notò una grande quantità di vestiti
abbandonati dai migranti, lasciati lì perché troppo bagnati o troppo
consumati dal viaggio. O forse gettati via per cercare di liberarsi
dell’etichetta di fuggiaschi. Levi decise di raccoglierne alcuni e
portarli a casa. Poi chiamò l’allievo, collaboratore e amico Beppe
Finessi, indossò uno sopra l’altro quei vestiti, e si fece fotografare
da lui. La foto Vestiti di arrivati
(2015) è diventata un manifesto stradale esposto a Bologna a fine gennaio del 2016.
Stefano Scheda, Che terra tocchi?, Vuccumpra, 2008-2015, 14 asciugamani 6 parei stampa su tessuto, cm 80x140, ed. 12
diritto di cittadinanza
L’artista siriano Rabee Kiwan di fronte all’esodo dei suoi connazionali (lui stesso si è rifugiato in Libano) riflette sull’identità personale e su quella di un popolo, come il suo, che subisce la guerra. In Passport photo l’artista dipinge una serie di fototessere e di timbri ricostruendo così il particolare rapporto che ogni rifugiato ha con i propri documenti.
Ritratti anonimi, sfigurati, simili a passaporti sgualciti. Le fototessere sui documenti, sui passaporti rivelano un duplice messaggio: sono quello che ci identifica nei confronti degli altri e senza i quali non esistiamo, lo scriveva Joseph Roth negli anni trenta, e allo stesso tempo sono ciò che testimonia un’appartenenza collettiva ad un popolo, ad una nazione. Senza non si è nessuno e non si appartiene a nessun Paese, nessuna terra.
Ospitalità e inclusione
Assistenza
Corridoi umanitari